La Riforma del 2005 ha significativamente ristretto il ventaglio di ipotesi in cui poter instaurare revocatorie fallimentari, sia attraverso la riduzione del c.d. “periodo sospetto”, sia attraverso la previsione di varie esenzioni, una delle quali è qui in esame. Si tratta di strumenti attraverso cui il Legislatore ha inteso affrontare in maniera differente rispetto al passato le problematiche relative alla crisi d’impresa, in modo da favorire la conservazione dell’attività o, quanto meno, la gestione della crisi attraverso accordi coi creditori, con lo scopo espresso di agevolare la continuazione dell’impresa che si trovi in stato di crisi[1]. Il loro proficuo utilizzo può consentire di scongiurare l’interruzione in massa dei rapporti commerciali, di garantire un margine residuo di operatività dell’impresa, di non disperdere il valore di funzionamento dell’azienda e di non recidere processi di recupero della crisi in atto.
A fronte dell’intenzione espressa del Legislatore di valorizzare il bene della salvaguardia delle imprese versanti in stato di crisi, un sistema revocatorio ancora rigido – come era quello pre-riforma – rappresentava una grande contraddizione ed esponeva al rischio di vanificare ogni sforzo, poiché l’impresa restava soggetta al rischio di caducazione degli atti compiuti nella fase precedente alla dichiarazione di fallimento, anche ove inseriti in una fase di recupero e conservazione dell’attività.
Dall’altro lato del rapporto, scopo dell’esenzione è di “rassicurare i fornitori dell’imprenditore insolvente della stabilità di transazioni commerciali riconducibili ai normali rapporti di fornitura”[2].
Come si legge in Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, la ratio ispiratrice della norma è da individuarsi sia nell’esigenza di preservare la continuità dell’attività aziendale per garantire la conservazione dell’impresa in crisi in vista di un suo recupero, evitando che i fornitori, che vengono a conoscenza dello stato di difficoltà di quest’ultima, nel timore di una futura revoca dei pagamenti ricevuti, interrompano i rapporti, così impedendo la prosecuzione dell’attività, sia nell’esigenza di tutelare i terzi quando la normalità del rapporto lascia presupporre una mancanza di conoscenza in capo a questi ultimi dello stato di insolvenza. Analogamente, in precedenza, Trib. Bergamo, Sez. II, 14.11.2012, n. 2846, aveva affermato che la ratio della disposizione è tesa, da un lato, ad evitare che il manifestarsi della crisi induca i fornitori di beni necessari all’esercizio dell’ordinaria attività aziendale dell’imprenditore in crisi a sospendere i rapporti commerciali funzionali alla prosecuzione dell’impresa, in modo da aggravarne ulteriormente la crisi e, dall’altro, a tutelare l’accipiens, garantendo il consolidamento di pagamenti che, in quanto ricevuti nello svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e nei termini d’uso, sono sotto il profilo oggettivo tali da non far sorgere sospetto alcuno in merito alla solvibilità del debitore. Alcuni Giudici hanno però tentato di minimizzare la portata delle esimenti qualificando lo stato temporaneo di crisi dell’imprenditore come “eventuali momenti transeunti di mera difficoltà percepibili come tali” (Trib. Monza, 24.4.2012; Trib. Milano, 3.5.2012; Trib. Salerno, 30.1.2015).
La funzione cruciale ricoperta da questa disposizione rende necessario una analisi ermeneutica mirata a chiarire cosa debba intendersi per “termini d’uso”.
Se la prima parte della norma è chiara ed esaustiva (nel senso che si specifica che il pagamento esonerato è solo quello riconducibile ad una transazione commerciale conclusa in ragione dell’esercizio dell’attività di impresa), dubbi sono sorti in ordine all’interpretazione da darsi alla locuzione “termini d’uso”, oggetto di ampie discussioni in dottrina e nella giurisprudenza di merito.
Occorre dunque fornire la corretta definizione di “termini d’uso”, indagando le intenzioni del Legislatore: la questione, anche se solo esegetica, presenta profili di problematicità determinati dalla circostanza che ogni diversa opzione di scelta può spiegare conseguenze rilevanti nei confronti dei singoli operatori economici.
I precedenti in dottrina e nella giurisprudenza di merito.
Nel predetto lavoro di esegesi, una parte della dottrina ha inteso valorizzare l’elemento cronologico, ritenendo di dover sottrarre dall’azione revocatoria fallimentare quei pagamenti eseguiti entro un determinato periodo, rinvenendo dunque nel tempo dell’adempimento un elemento indiziario della “normalità del pagamento”[3]. Secondo altri interpreti la locuzione “termini d’uso” dovrebbe riferirsi alla “normalità delle modalità di effettuazione del pagamento” più che alla sua puntualità o alla sua collocazione cronologica[4]. V’è stato poi chi ha rimesso la valutazione sulla normalità del pagamento ad una analisi complessiva, confrontando le modalità dell’adempimento con il tempo[5]. Non può ignorarsi l’opinione di chi non ha ritenuto doversi procedere ad una determinazione aprioristica dei menzionati parametri, ritenendo che l’espressione in oggetto dovesse fungere da clausola generale attraverso cui il Legislatore si era rimesso ad una valutazione sociale tipica, pertanto rendendosi necessaria una analisi caso per caso da parte dell’interprete[6]. In dottrina non erano quindi univoche le risposte alla domanda se per “termini d’uso” occorresse far riferimento alle pratiche generali di mercato oppure ai singoli rapporti intercorrenti tra le parti, né se la locuzione fosse collegabile al solo tempus della prestazione, o alle sue modalità concrete o ad entrambi.
Nella Giurisprudenza ha invece prevalso la soluzione che preferiva dare efficacia dirimente alle soluzioni concretamente attuate dalle parti contraenti piuttosto che alle condizioni generali presenti nel mercato di riferimento.
In maggioranza i Tribunali hanno ritenuto di dover valorizzare sia le modalità di pagamento, sia il tempus, ad iniziare da Trib. Torino, Sez. VI, 23.4.2009, che ha concisamente riferito l’espressione “termini d’uso” al tempo e alle modalità di pagamento “utilizzati abitualmente fra i contraenti nell’esercizio normale dell’attività di impresa”.
Trib. Milano, Sez. II, 16.1.2012, n. 447, ha evidenziato che il senso della previsione di cui all’art. 67, co. 3, lett. a), L. Fall., è comprensivo sia della qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico e ordinario, sia del dato cronologico, ossia del tempo dell’adempimento (il caso era quello di una girata di assegni emessi da clienti della società poi fallita, che costituiva forma diversa da quella fisiologica). Trib. Milano, Sez. II, 3.5.2012, n. 5115, ha rimarcato la necessità che “il pagamento sia effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti, con l’ulteriore conseguenza che solo i pagamenti ritardati rispetto a quanto dalle parti concordato finirebbero per ricadere nell’area degli atti solutori revocabili”. Analogamente, qualche tempo dopo, Trib. Milano, 24.12.2012, ha affermato che la locuzione “nei termini d’uso” deve essere intesa sotto un duplice profilo concernente sia il tempo, sia le modalità del pagamento, imponendo essa di attenersi al criterio della regolarità dell’adempimento ed implicando la contestualità e/o la normalità dello scambio: ne conseguiva che dovevano ritenersi esenti da revocatoria i pagamenti avvenuti regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale, mentre non potevano beneficiare dell’esenzione i pagamenti effettuati in ritardo, a maggior ragione se avvenuti a seguito di solleciti. A tal riguardo, si veda anche Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, secondo cui l’esenzione opera sul piano oggettivo, essendo irrilevante lo stato soggettivo dell’accipiens, e la locuzione “termini d’uso” comprende sia la qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico ed ordinario, sia il dato cronologico, cioè il tempo del pagamento, con la conseguenza che per l’operatività della causa di esenzione è necessario che il pagamento sia stato effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti.
Per Trib. Monza, Sez. III, 24.4.2012, il concetto di “termini d’uso” fa riferimento alle condizioni di tempo e di modo dei pagamenti normalmente in uso tra i contraenti ed in concreto pattuiti tra le parti, sempre che siano mezzi fisiologici e usuali di pagamento, per cui “non possono divenire termini d’uso prassi patologiche e forme anormali di pagamento non concordate dalle parti all’inizio del rapporto negoziale” (più di recente, Trib. Torino, Sez. I, 2.3.2016, ha integralmente ripreso questa pronuncia).
In maniera non dissimile il Tribunale di Salerno (Sez. III, 18.6.2013, n. 1559; 4.11.2013) ha affermato l’operatività oggettiva (indipendentemente dall’accertamento dell’elemento psicologico) dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, identificabili con “le condizioni abitualmente utilizzate nei rapporti tra fallito ed accipiens”: “pagamenti nei termini d’uso sono quelli eseguiti con un mezzo fisiologico e ordinario ed effettuati nei tempi utilizzati nella concreta pregressa attività commerciale”, cioè “compiuti con lo stesso ritardo precedentemente tollerato dall’accipiens”, gravando sempre sul convenuto (quindi sul fallito) l’onere di provare la sussistenza dell’esimente. Più di recente, lo stesso Tribunale (Sez. III, 30.1.2015, n. 506) ha ricordato che la categoria normativa dei “termini d’uso” postula la riconducibilità del regolamento del rapporto commerciale a clausole e modalità di esecuzione puntuali e sicuramente identificabili nel contenuto.
Per Trib. Roma, Sez. Fall. 10.9.2014, la causa di esenzione postula “l’utilizzo di mezzi solutori ordinari ed il rispetto dei termini di pagamento originariamente convenuti tra le parti, ovvero di quelli che – pur diversi da quanto inizialmente previsto dai contraenti – siano riconducibili ad una convenzione tra di loro instauratasi successivamente in modo tacito o esplicito”. Già precedentemente i giudici capitolini avevano affermato che “deve intendersi eseguito nei termini d’uso quel pagamento che non solo sia avvenuto con mezzi normali ma anche con una tempistica coerente con il regolamento negoziale accettato dalle parti ovvero, in via subordinata usualmente in essere tra le parti e dunque anch’essa caratterizzata da profili di normalità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 21.5.2014, n. 11407; Id., 7.5.2014, nn. 10103 e 10102) o anche che per “termini d’uso” si deve fare riferimento “alle condizioni di tempo e al modo con cui i pagamenti sono stati effettuati, condizioni che siano state pattuite dalle parti o che rappresentino le modalità normali in uso tra le stesse: non possono ritenersi effettuati nei termini d’uso quegli adempimenti frutto di prassi patologiche ed anomale che non siano state concordate tra le parti all’origine del rapporto contrattuale” (Trib. Roma, Sez. Fall., 28.1.2014, n. 2085), nonostante altrove si fosse fatto esclusivo riferimento a operazioni di pagamento rientranti “nelle normali relazioni commerciali intrattenute tra le parti” che non presentavano “profili di anormalità e atipicità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 11.3.2014, n. 5731) o a “pagamenti effettuati regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale tra le parti” (Trib. Roma, Sez. Fall., 24.1.2014, n. 1821).
La decisione della Cassazione.
La questione giunta all’esame della Prima Civile, nei precedenti gradi di giudizio aveva avuto due differenti soluzioni. In primo grado il Tribunale ha inteso i “termini d’uso” come quelli correnti tra le parti al momento dell’atto solutorio, nell’ambito delle ordinarie attività dell’impresa operante in un determinato settore e ritenendo sussistente tra le parti l’uso, conforme alla prassi del settore, dei pagamenti in contanti della merce acquistata al dettaglio. Differentemente dai giudici di primo grado, la Corte d’Appello ha invece inteso i “termini d’suo” nel riferimento alle “abitudini del singolo imprenditore e non in base alle consuetudini generali relative a determinate tipologie contrattuali”.
Per la Cassazione “la dizione normativa non è particolarmente chiara, mentre lo è la ratio della norma, intesa a favorire la conservazione dell’impresa nell’ottica dell’uscita dalla crisi, mentre la precedente disciplina della revocatoria era ritenuta di serio ostacolo alle prospettive di risanamento dell’impresa”.
La norma riferisce i termini non alle prestazioni, ma necessariamente ai pagamenti effettuati.
La soluzione “più appagante” per i Giudici di Legittimità è quella che privilegia “il rapporto diretto tra le parti”, dando rilievo al mutamento dei termini “da intendersi non solo come tempi, ma anche come le complessive modalità di pagamento”. Vengono dunque in rilievo i singoli rapporti tra le parti perché, se invece dovesse riconoscersi valenza dirimente alle prassi del settore economico di riferimento, secondo la Cassazione, si finirebbe per equiparare la fattispecie in esame a quella di cui al co.1, n. 2, del medesimo art. 67 L. Fall. in materia di pagamenti anormali.
È stato conclusivamente affermato il principio per cui “il riferimento della L. Fall., art. 67, co. 3, lett. a), ai “termini d’uso”, ai fini dell’esenzione della revocatoria fallimentare per i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, attiene alle modalità di pagamento proprie del rapporto tra le parti e non già alla prassi del settore economico in questione”. Dal coordinamento tra le pronunce di merito più rilevanti e il principio di diritto espresso nella recentissima sentenza n. 25162/2016, può ben rilevarsi come esenti da azione revocatoria fallimentare siano tutti quei pagamenti eseguiti in modo aderente rispetto alle regole di un determinato rapporto contrattuale, sia con riferimento ai tempi dell’adempimento (pagamento), sia con riferimento alle sue concrete modalità.
[1] Cavalli, L’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti eseguiti nei termini d’uso, in Fallimento, 2010; Id., L’esenzione dei pagamenti eseguiti nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, in Fallimento, 2007; Zorzi, Riflessioni sull’esenzione da revocatoria ex art. 67, comma 3°, lett. a), L. Fall., alla luce dell’introduzione del concordato “in bianco”, in www.ilcaso.it; Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2006, 1; Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Cedam, 2006; Pecoraro, Quando i termini diventano d’uso ai fini dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2015, 2.
[2] Percoraro, cit. nota 1.
[3] Per una rapida summa delle diverse opinioni emerse al riguardo: Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) della revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fallimento, 2005; Rago, cit. nota 1; Plenteda, Commento all’art. 67, co. 3, lett. a) c), f) g), in Trattato delle procedure concorsuali. 2 Le azioni revocatorie. I rapporti preesistenti, diretto da Ghia e Piccininni-Severini, Utet, 2010; Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Diritto Fallimentare, 2006, I; Angiolini, La nuova revocatoria fallimentare, in Rivista Notariato, 2005.
[4] Bonfatti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in AA.VV., Le Riforme sulla Legge Fallimentare, Utet, 2009; Id., Atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie, in AA.VV., Fallimento ed altre procedure concorsuali, Utet, 2009.
[5] Porzio, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Trattato di Diritto Fallimentare. Gli organi, gli effetti, la disciplina penalistica, Cedam, 2010.
[6] Giorgi, Le esenzioni dalla revocatoria fallimentare per favorire la normale prosecuzione dell’impresa (art. 67, comma 3, lettere a ed f, legge fallimentare), in Diritto Fallimentare, 2008.
La nota è stata pubblicata anche su Diritto & Diritti ed è leggibile cliccando il seguente link.
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