Videosorveglianza in tilt? Il Condominio risarcisce per il furto!

Videosorveglianza in tilt? Il Condominio risarcisce per il furto!

Lo stabile si era assunto l’onere di manutenere il sistema di allarme.

Il condominio
risponde delle carenze del sistema di sorveglianza se hanno facilitato il furto
nel locale commerciale. È questa la decisione della Seconda Sezione Civile del
Tribunale di Latina del 20.9.2018.

Se il sistema di vigilanza si dimostra inadeguato
o malfunzionante, il condominio
risponde dei danni conseguenti al furto subito da un condomino, qualora lo
stesso sia anche custode dell’impianto,
tenuto alla sua conservazione, tanto da sopportarne le spese di manutenzione.

L’obbligo al
risarcimento prescinde dal fatto che l’impianto sia stato concesso in comodato
al condominio da una società incaricata del controllo del sistema di allarme,
specie quando le carenze strutturali
e il malfunzionamento del predetto
impianto siano state dalla stessa già segnalate al condominio, soggetto
obbligato in virtù del regolamento condominiale a regolare il servizio di
sicurezza e sorveglianza del centro.

Il caso
disciplinato dal Tribunale di Latina è quello della affittuaria di un negozio
all’interno di un centro commerciale in uno stabile condominiale, la quale ha
avviato il contenzioso contro ila proprietaria dell’immobile, il condominio e
la società incaricata del servizio di vigilanza, chiedendo il risarcimento dei
danni conseguenti ad un furto subito
nel negozio. La società di vigilanza aveva contestato la domanda deducendo che
sia la proprietaria del locale, sia il condominio erano al corrente
dell’inadeguatezza dell’impianto di allarme.

Il Tribunale di
Latina ha accolto la domanda condannando al risarcimento del danno il solo
condominio. Nel corso del giudizio sarebbe infatti emerso che, in virtù del
regolamento condominiale, il condominio avrebbe dovuto regolare “il servizio di sicurezza e sorveglianza del
centro avvalendosi anche di ditte esterne specializzate”
, con relativi
oneri a carico dei condomini. Per il Tribunale è innegabile che la clausola
regolamentare, pur nella sua genericità, abbia affidato al condominio il
servizio di sicurezza e sorveglianza del centro, addossando ai condomini anche
le spese per la manutenzione. Infatti, il condominio aveva stipulato un “contratto di abbonamento per collegamento,
controllo e pronto intervento operativo”
.

Dall’istruttoria
era altresì emerso che, anche in passato, vi erano stati dei tentativi di furto
e tali circostanze erano state portate a conoscenza – a cura della proprietaria
– del condominio e della società di vigilanza, la quale si era dichiarata
disposta ad implementare i sistemi di allarme, ma non prima del saldo delle
morosità. Il condominio tuttavia non si è mai adoperato né per “rivedere le condizioni contrattuali”
con la società di vigilanza, né al fine di conformare l’impianto in relazione
alle dimensioni del centro commerciale e, in particolare, a dotare di
infrarossi la cupola dello stesso, dalla quale peraltro sembra si siano
introdotti i malviventi.

Pertanto, esclusa
qualsivoglia responsabilità della proprietaria dei locali, risulta come unico responsabile proprio il
condominio.

Pensioni più protette contro i pignoramenti.

Pensioni più protette contro i pignoramenti.

Grazie all’intervento della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la disciplina transitoria che aveva introdotto garanzie per le sole procedure iniziate dopo il 27 giugno 2015.

Ci sono spiragli per il recupero delle somme frattanto pignorate?

Con la sentenza n. 12/2019, depositata lo scorso 31 gennaio, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della normativa transitoria del 2015 che limita la pignorabilità dei trattamenti previdenziali solo per le procedure esecutive iniziate dopo il 27 giugno 2015, data di entrata in vigore della modifica al Codice di procedura civile (che aveva appunto introdotto questa garanzia oltre che per le pensioni, anche per stipendi ed indennità varie).

Nel 2015 il legislatore apportò alcune modifiche al Codice di procedura civile ed introdusse limiti alla pignorabilità delle somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative a rapporti di lavoro o di impiego (comprese quelle dovute a causa di licenziamento), a titolo di pensione, di indennità che sostituiscono la pensione, o di assegni di quiescenza, in caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore.

Fu prevista la pignorabilità di queste somme solo per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, in caso di accredito in data antecedente al pignoramento.

L’intervento della Corte Costituzionale è stato richiesto dal Tribunale di Brescia, che ha posto la questione di legittimità costituzionale circa la disciplina transitoria delle misure a tutela di pensioni e stipendi: il pacchetto di tutele infatti scatta solo per le procedure di pignoramento successive al 27 giugno 2015, data di entrata in vigore delle modifiche al Codice di procedura civile. Il caso riguardava un pensionato titolare solo dell’assegno sociale.

La Corte, pur riconoscendo la giustificabilità delle intenzioni del legislatore, vale a dire la salvaguardia dell’affidamento della certezza giuridica per chi abbia avviato una procedura esecutiva sulla base delle regole precedenti che non prevedevano questi limiti, ha inteso però bilanciare gli interessi in gioco e pertanto ha inteso far prevalere la protezione dei pensionati.

Per la Corte Costituzionale, quindi, la prevalenza dell’interesse alla protezione del pensionato, giustifica l’applicazione retroattiva delle misure più favorevoli.

Già precedentemente (sentenza n. 83/2015) la Corte aveva sostenuto la necessità che l’Ordinamento adottasse un rimedio per assicurare condizioni di vita minime ai pensionati, rimedio che però non poteva essere introdotto da una sentenza additiva.

Per la Corte Costituzionale, che ha colto il richiamo che il rimettente ha fatto proprio della sentenza n. 83/2015, la questione merita accoglimento con riferimento al principio costituzionale di eguaglianza, che nel caso di specie trova attuazione mediante l’impignorabilità parziale dei trattamenti pensionistici (a tutela dell’interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita).

La Corte ha concluso sostenendo che “nel contesto in cui il legislatore – ottemperando al monito di questa Corte – ha effettivamente esercitato la sua discrezionalità al fine di garantire la necessaria tutela al pensionato che fruisce dell’accredito sul proprio conto corrente, risulta irragionevole che tale tutela non sia estesa alle situazioni pendenti al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa”, così estendendo retroattivamente le tutele a tutti coloro che beneficiano dell’assegno minimo.

La decisione della Corte, per i principi espressi, potrebbe consentire il recupero delle somme frattanto pignorate al di sotto dei limiti di legge.

Il Giudice dà ragione ad Ikea: licenziata la dipendente disobbediente ai turni.

Il Giudice dà ragione ad Ikea: licenziata la dipendente disobbediente ai turni.

Certamente in molti ricorderanno la vicenda di Marica Ricutti, donna separata e madre di due bambini, di cui uno invalido al 100%, che entrò in conflitto con Ikea in merito all’assegnazione dei turni di lavoro. L’episodio ebbe rilevanza nazionale per la fermezza della decisione presa dall’azienda e per le iniziative di solidarietà a sostegno della lavoratrice.

I contrasti accesi tra lavoratrice e datore di lavoro sulla organizzazione dei turni sfociarono nel licenziamento che il colosso svedese, nell’autunno del 2017, comminò alla sua dipendente, motivato da insubordinazione verso i superiori e comportamento oltraggioso.

Il licenziamento fu impugnato dinanzi al Giudice del Lavoro del Tribunale di Milano dalla lavoratrice, la quale affermò la sua natura discriminatoria. Il Giudice del Lavoro, in prima battuta, con l’ordinanza del 3.4.2018, confermò la legittimità del licenziamento. Nella prima decisione veniva riferito che “i comportamenti dell’ex dipendente sono stati di gravità tali da ledere il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”.

Il caso non ha impegnato i giudici su particolari questioni giuridiche, ma è stato risolto sulla sola valutazione dei fatti. È tuttavia utile passare in rassegna le motivazioni per comprendere sino a che punto si può spingere la conflittualità tra lavoratore e datore di lavoro. Il Giudice, valutando la documentazione e le prove testimoniali, ha ritenuto corretto l’operato dell’azienda, ha verificato l’assenza di condotte discriminatorie e ha invece accertato il comportamento negligente della lavoratrice.

Il giudizio formulato in prima battuta è stato confermato anche all’esito dell’opposizione proposta dalla licenziata. In modo particolare, è stato osservato che i fatti disciplinarmente rilevanti e contestati alla dipendente sono stati totalmente confermati e, nella successiva fase di impugnazione, la difesa non ha introdotto nuovi elementi per modificare il primo giudizio.

È stato ribadito che la donna ha commesso “insubordinazione verso i superiori accompagnata da comportamento oltraggioso”, ed è stato affermato, in particolare, che “l’accertata frase pronunciata ad alta voce nei confronti di una superiore, ‘mi avete rotto i c…’, integra gli estremi del comportamento oltraggioso”.

A fronte di queste considerazioni, essendo venuto meno il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente, è stata confermata la legittimità del licenziamento.

Una sentenza che sta facendo rumore (un avvertimento per gli avvocati, che devono essere molto chiari coi loro clienti).

Una sentenza che sta facendo rumore (un avvertimento per gli avvocati, che devono essere molto chiari coi loro clienti).

Sono tempi molto duri per chi propone iniziative giudiziarie fondate su ragioni che poi si rivelano inconsistenti.

Specialmente negli ultimi tempi, uno strumento normativo nelle mani dei giudici è diventato lo spauracchio di molti avvocati e parti, dal momento che consente ai primi di sanzionare, anche pesantemente, chi ha agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, riconoscendo un risarcimento o un indennizzo (a seconda delle ipotesi) in favore dell’avversario.

L’art. 96 del codice di procedura civile dice testualmente che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. (…) In ogni caso, quando pronuncia sulle spese … il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Dalla lettura della norma, si comprende come la condanna della parte soccombente per “lite temeraria” può sia trarre origine da una espressa richiesta della controparte (e sappiamo benissimo che questa istanza può essere formulata anche nel corso delle ultime difese), sia essere frutto di una autonoma scelta del giudice che ritenga di dover sanzionare il comportamento processuale della parte perdente. Nel primo caso siamo di fronte ad una vera e propria richiesta di danni che maturano nel corso del processo a causa del comportamento della controparte. Nel secondo caso siamo invece dinanzi ad una libera iniziativa del giudice (“in ogni caso … il giudice … può condannare”) che, da molti, viene interpretata come una vera e propria sanzione.

Molte volte i giudici utilizzano la mano pesante, come recentemente ha fatto il Tribunale di Milano con la sentenza n. 5681 del 21.5.2018, che ha comminato una sanzione aggiuntiva pari ad € 4.151,00!

La norma sulla responsabilità aggravata risponde ad una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume (già di per sé notoriamente eccessivo) del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti. In tutti questi casi, il giudice, valutando “inconsistenti” sotto il profilo giuridico le ragioni spese, può decidere di intervenire e sanzionare questa condotta. Uno dei primi doveri è infatti quello di valutare a monte, con l’ordinaria diligenza, la sostenibilità delle proprie ragioni!

Come avviene la liquidazione della sanzione?

La sentenza del Tribunale di Milano, nella quale il giudice ha utilizzato il potere di sanzionare autonomamente la parte, è in linea con altre recenti pronunce della stessa Cassazione e con lo stesso insegnamento della Corte Costituzionale, ma oggettivamente sorprende per l’entità degli importi indennizzati.
Ci sono alcuni giudici secondo cui una equa determinazione dell’indennizzo può essere “calibrata anche sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l’unico limite della ragionevolezza” [1]. Questo criterio può valere sia in caso di espressa richiesta della parte, sia in caso di iniziativa autonoma del giudice.

Cosa insegna la vicenda?

Oggigiorno la decisione di intraprendere la via giudiziaria deve essere frutto di attente valutazioni e ponderazioni, che devono essere facilitate dai giusti consigli forniti dall’avvocato. Questo perché, come anche ha ammonito la Corte Costituzionale [2], il processo non può più essere utilizzato come strumento dilatorio, perché in questo modo si abusa della sua funzione e la si mortifica. D’ora innanzi non sono più consentiti utilizzi “strategici” delle azioni giudiziarie. E ciò deve essere ben chiaro soprattutto agli avvocati, ma anche ai clienti.

Ci vuole buonsenso ed equilibrio.

Occorre sempre ponderare tutti fattori in gioco, poiché molte volte l’incidenza dei costi certi e dei rischi rispetto ad una utilità solo eventualmente conseguibile, suggerirebbe il perseguimento di altre strade, meno faticose, meno dispendiose, meno pericolose e, forse, anche più rapide e fruttuose.

La scelta della giusta strategia al fine di non gravare di costi inutili ed eccessivi la nostra clientela (sia essa privata o professionale) è una delle caratteristiche principali della nostra policy.

[1] CASS. 21570/2012.
[2] CORTE Cost. 152/2016.