Il contratto di agenzia: esame di alcuni profili operativi tra diritto nazionale ed europeo.

Il contratto di agenzia: esame di alcuni profili operativi tra diritto nazionale ed europeo.

Quali sono i requisiti essenziali del contratto di agenzia?
In che modo, negli anni, la legislazione comunitaria ha consentito a quella italiana di evolversi?
Qual è stato il contributo della giurisprudenza interna ed europea?

L’intensificarsi di rapporti e scambi tra gli operatori economici dei diversi stati europei ha indotto il legislatore comunitario a compiere interventi miranti ad eliminare le differenze tra i singoli sistemi nazionali e a conseguire accettabili livelli di omogeneizzazione. Le divergenze tra i vari ordinamenti non solo si traducevano in dubbi applicativi, ma potevano anche determinare squilibri nei rapporti tra le parti, con possibili ricadute negative sulla tenuta e prosecuzione delle relazioni economiche. Tali evenienze si ponevano in netto contrasto con gli obiettivi della legislazione contrattualistica europea, la quale ha sempre mirato, da un lato, a garantire l’efficienza degli scambi e, dall’altro, a garantire la protezione dei contraenti più deboli o, a equivalenza di posizioni, ad assicurare pari tutele e prerogative.

Anche la disciplina degli agenti di commercio è stata interessata da questo processo e significativi sono stati gli aggiustamenti operati dalla legislazione comunitaria.

L’emanazione della Direttiva 86/653, recante disposizioni di “coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti”, si rese necessaria per esigenze di sistema e di uniformazione delle singole discipline nazionali. Le differenze tra ordinamenti influenzavano sensibilmente le condizioni di concorrenza e l’esercizio della professione, pregiudicando i livelli di protezione dell’agente nei rapporti col preponente, col contestuale rischio di compromettere la sicurezza delle stesse operazioni commerciali. Risultavano difficoltose anche le operazioni di stesura dei contratti di rappresentanza commerciale tra agenti e preponenti appartenenti a Paesi differenti, oltre che naturalmente il loro funzionamento. Anche in questo ambito si avvertiva la forte esigenza di creare una disciplina comune o quanto meno di avvicinare i sistemi dei singoli Stati ben al di là di quanto già non avvenisse in caso di applicazione delle regole sui conflitti tra norme, anche perché il costituendo mercato unico necessitava di norme omogenee.

Nelle pagine che seguono di cercherà di analizzare, da un punto di vista meno didascalico e più pragmatico, il processo di integrazione e armonizzazione che ha riguardato nel corso dei decenni la disciplina del rapporto di agenzia, e lo si farà attraverso ripetuti salti tra diritto interno e comunitario, indicando gli indirizzi principali della Corte di Cassazione e richiamando un recente arresto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sent. 21.11.2018, Causa C-452/17) alla quale deve riconoscersi il merito di aver illustrato la ratio sottesa all’intervento normativo di cui alla Direttiva 86/653/CEE, nonché il merito di aver delineato i tratti costitutivi della figura professionale dell’agente di commercio nel diritto europeo.

LE DEFINIZIONI

La Direttiva 86/653 definisce “agente commerciale” il soggetto che, in qualità di intermediario indipendente, è incaricato in maniera permanente di trattare per conto di un’altra persona (il “preponente”) la vendita o l’acquisto di merci, o di trattare e concludere queste operazioni in nome e per conto del preponente. Il Codice Civile dà invece la definizione del rapporto di agenzia (il contratto mediante il quale “una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata”).

Le definizioni sono quasi omologhe poiché la normativa interna (artt. 1742 e segg. c.c.) è stata significativamente modificata da interventi legislativi ispirati dalla Direttiva [[1]]. Già precedentemente la Corte di Cassazione aveva affermato che “il contratto di agenzia ha per oggetto il conferimento, a rischio dell’agente, di una attività economica autonomamente organizzata rivolta al conseguimento di un risultato di lavoro e vincolata al preponente da uno stabile rapporto di collaborazione; in ciò essenzialmente si differenzia dal contratto di lavoro, il quale ha all’oggetto la prestazione di una energia lavorativa in regime di subordinazione e nell’ambito di una organizzazione il cui rischio e risultato fanno capo esclusivamente al datore di lavoro”[[2]].

Il legislatore nazionale ha stabilito l’inconfigurabilità di un rapporto di agenzia nell’ipotesi in cui un soggetto agisca in qualità di organo di una società o di un’associazione, anche nell’ipotesi in cui egli abbia il potere di impegnare (vale a dire assumere obbligazioni per) gli stessi enti plurisoggettivi, o ancora nel caso di un socio legalmente abilitato ad impegnare altri soci, o infine nell’ipotesi di chi riveste il ruolo di amministratore giudiziario, liquidatore o curatore fallimentare.

FORMA DEL CONTRATTO, OGGETTO DEL RAPPORTO, MODALITA’ DI ADEMPIMENTO.

La forma scritta fu prevista dall’art. 2, co. 3, dell’Accordo Economico Collettivo del 18.1.1977, nonché dall’art. 2, co. 3, del successivo Accordo del 24.6.1981, entrambi relativi al rapporto di agenzia del settore commercio. Trattandosi di fonti negoziali, essa deve ritenersi prescritta “ad probationem”, atteso che l’obbligatorietà della forma scritta “ad substantiam” può essere prevista solo da fonti legislative. Ed infatti l’art. 1742, co. 2, c.c., modificato dal d. lgs. 10.9.1991, n. 303 in attuazione della Direttiva CEE n. 86/653, a norma del quale ciascuna parte ha il diritto di ottenere dall’altra una copia del contratto dalla stessa sottoscritto, prevede che il contratto di agenzia sia provato per iscritto [[3]].

Non soddisfa il requisito della scrittura la documentazione di natura varia (informazioni su trasformazioni o modifiche societarie, riepiloghi di pagamenti, provvigioni ed estratti conto, etc.) da cui non emerga lo scambio esplicito di un consenso negoziale [[4]]. In mancanza della forma scritta, è valida l’esecuzione volontaria del contratto, la sua conferma, la ricognizione volontaria. Si riconosce la possibilità di ricorrere alla confessione ed al giuramento, ma si esclude la possibilità della prova testimoniale, ad eccezione dell’ipotesi di dimostrazione della perdita incolpevole del documento, e della prova per presunzioni [[5]].

L’oggetto dell’incarico affidato all’agente con il contratto di agenzia è l’attività di “promozione diretta” di contratti nell’interesse del preponente. Questa attività implica il riconoscimento di diritti ed obblighi in capo ad entrambe le parti che, nella pratica, si sostanziano in incombenze di contenuto vario e non predeterminato. Nel nostro Codice, premessa l’applicabilità in ogni caso delle clausole generali contenute agli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c., si rinvengono richiami alla buona fede sia per quel che concerne l’attività dell’agente (art. 1746 c.c.), sia per i doveri del preponente (art. 1749 c.c.).

La previsione dell’obbligo di condotta secondo lealtà e buona fede, espressamente contemplato nella Direttiva CEE 86/653, ha assunto nel nostro ordinamento un significato più profondo rispetto ai già citati obblighi di carattere generale perché consente al giudice di avere a disposizione un duttile strumento di valutazione del comportamento dei contraenti nella specifica tipologia contrattuale. Se da un lato l’art. 1746 c.c. disciplina gli obblighi dell’agente, gli artt. 1748 e 1749 c.c. regolano in modo particolare i suoi diritti e i corrispondenti obblighi cui è tenuto il preponente [[6]].

Con particolare riguardo al preponente, la legge esige prima di tutto un comportamento improntato a lealtà e buona fede, giuridicamente rientranti tra quelli che sono qualificati come “obblighi di protezione”, vale a dire come clausole generali a presidio dei rapporti obbligatori che impongono anzitutto la regola di correttezza. La stessa legge prevede poi una serie di attività specifiche che possono invece farsi rientrare nella categoria degli “obblighi di prestazione”. Mentre gli obblighi di protezione possono essere soltanto violati, i secondi attengono più specificamente all’azione di adempimento [[7]].

Secondo il dettato europeo l’agente deve tutelare gli interessi del preponente e agire con lealtà e buona fede: egli deve adoperarsi adeguatamente per trattare e concludere gli affari ai quali è incaricato, deve riportare al preponente tutte le informazioni necessarie di cui dispone, deve attenersi alle istruzioni (purché ragionevoli) impartite dal preponente.

L’obbligo ex lege non solo integra la prestazione principale, ma si articola oltre che in obblighi strumentali accessori e funzionali alla soddisfazione dell’interesse del creditore, anche in obblighi autonomi e reciproci rivolti a proteggere la sfera giuridica della controparte [[8]].

Come sancisce l’art. 1746 c.c., l’agente deve “adempiere l’incarico affidatogli in conformità delle istruzioni ricevute e fornire al preponente le informazioni riguardanti le condizioni del mercato nella zona assegnatagli, e ogni altra informazione utile per valutare la convenienza dei singoli affari” e deve adempiere gli obblighi che incombono al commissionario. La norma precisa che ogni singolo patto mirante ad eludere i doveri dell’agente è nullo. L’ossequio ai doveri di lealtà e buona fede va valutato caso per caso e con specifico riguardo alla natura dell’attività esercitata, ma certamente non prescinde dal dovere dell’agente di astenersi da qualunque attività che possa nuocere al preponente.

Al preponente l’art. 1749 c.c. impone di agire con lealtà e buona fede e di mettere a disposizione dell’agente la documentazione necessaria relativa ai beni e ai servizi trattati, fornendo le informazioni necessarie per l’esecuzione del contratto, mentre è dell’agente, salvo diverso accordo, l’organizzazione imprenditoriale della propria attività [[9]].

Si è già detto che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, il recesso per giusta causa ex art. 2119 cc si applica anche ai contratti di agenzia. Quanto alla sua nozione, la Cassazione ha precisato che costituisce giusta causa di recesso qualunque fatto che sia tale da incidere sul rapporto di fiducia proprio del contratto di agenzia e tale da arrecare comunque danno, diretto o indiretto, agli interessi delle parti [[10]].

Nella valutazione della giusta causa di recesso l’accertamento del giudice non può essere limitato alla verifica delle violazioni delle norme contrattuali regolanti il solo rapporto agenziale ma, in virtù dell’obbligo sancito dall’art. 1749 c.c., deve tener conto di ogni invasione che violi i principi di lealtà e buona fede e che perciò sia di per sé lesiva degli interessi delle parti. In tale ottica assumono rilievo non solo i comportamenti che si riflettono in modo diretto ed immediato sul sinallagma contrattuale, ma anche quelli i cui effetti si concretizzano in maniera mediata ed indiretta sui rapporti tra le parti, purché siano idonei ad incidere sul rapporto fiduciario, che è elemento caratterizzante di tale tipo di contratto, arrecando pregiudizio alle situazioni giuridiche soggettive dei contraenti [[11]].

I REQUISITI “MINIMI” DEL RAPPORTO

Per la Corte di Giustizia, nella sentenza richiamata nelle premesse, sono tre i requisiti necessari affinché ad un soggetto possa essere riconosciuta la qualifica di agente: egli deve svolgere mansioni da intermediario indipendente, deve essere contrattualmente vincolato in modo permanente al preponente, deve esercitare un’attività che consista o nel trattare la vendita o l’acquisto di merci per il preponente o nel trattare e concludere tali operazioni in nome e per conto di quest’ultimo. Il soddisfacimento di queste tre condizioni e la insussistenza delle ipotesi tipiche di esclusione (tra cui la più importante è quella sulla retribuzione, nel senso che in sua mancanza non si ha contratto di agenzia) profilano la qualifica di “agente commerciale”, senza che possano rilevare le altre modalità con cui lo stesso svolge la propria attività.

Nel diritto europeo la retribuzione è requisito essenziale, tanto che la CGE esclude l’applicabilità della Direttiva nei confronti di quei soggetti che non siano retribuiti per la loro attività. Lo scarto rispetto alla legislazione interna (art. 1748 c.c.) è netto: mentre il diritto alla provvigione viene dal legislatore italiano semplicemente inteso quale effetto naturale dello svolgimento di una determinata operazione, nella disciplina europea esso diventa elemento necessario del rapporto. Nonostante su tale requisito si consumi ancora una notevole differenza tra disciplina europea ed interna, occorre evidenziare come la Direttiva Europea abbia favorito l’evoluzione della disciplina italiana, dal momento che prima dell’intervento sovranazionale la retribuzione dell’agente era legata non allo svolgimento dell’attività, ma solo alla positiva conclusione del contratto.

Nell’attuale assetto normativo interno l’agente ha diritto alla provvigione per gli affari conclusi durante il contratto quando l’operazione è stata portata a termine per effetto del suo intervento, per gli affari conclusi dal preponente con i terzi che l’agente aveva in precedenza acquisito come clienti per affari dello stesso tipo o appartenenti alla zona o alla categoria o gruppo di clienti riservati all’agente, per gli affari conclusi dopo la data di scioglimento del contratto se la proposta è pervenuta al preponente o all’agente in data antecedente o se gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dalla data di scioglimento del contratto e la conclusione è da ricondurre prevalentemente all’attività da lui svolta. Come visto, rispetto al passato non è più necessaria la prova del buon fine dell’affare, vale a dire del pagamento del prezzo da parte del cliente, dal momento che l’unica condizione di esigibilità è l’esecuzione del contratto da parte del preponente.

La legislazione europea non subordina il riconoscimento della qualifica allo svolgimento dell’attività professionale al di fuori della sede o di locali che siano nella disponibilità del preponente.

Ritiene la Corte Europea che qualsiasi “condizione” ulteriore rispetto a quanto già previsto dalla Direttiva potrebbe avere portata limitativa della tutela cui la stessa norma è mirata e pregiudicherebbe il raggiungimento degli obiettivi da essa perseguiti. È quindi ininfluente la circostanza che l’agente eserciti la propria attività in forma itinerante o in luoghi esterni a quelli della sede del preponente o invece presso detta sede. Diversamente, resterebbero privi di tutela coloro i quali esercitano, ad esempio con l’utilizzo delle moderne tecnologie, compiti (di ricerca della clientela, di vendita, etc.) comparabili a quelli svolti dagli agenti commerciali che viaggiano.

Il mero svolgimento delle proprie mansioni presso la sede del preponente può non rilevare se tutto è limitato allo sfruttamento dei vantaggi connessi  allo svolgimento del lavoro in loco: la messa a disposizione di una soluzione logistica, l’accesso alle strutture organizzative della sede e altre situazioni connesse, non necessariamente implicano che venga intaccata l’indipendenza dell’agente, sia sotto il profilo dell’organizzazione dell’attività, sia sotto il profilo dei rischi economici connessi allo svolgimento di essa.

Sulla scorta delle riflessioni che precedono, la CGE ha affermato che “l’art. 1, par. 2, Dir. 86/653, deve essere interpretato nel senso che la circostanza che un soggetto, incaricato in maniera permanente di trattare, per un’altra persona, la vendita o l’acquisto di merci ovvero di trattare e di concludere dette operazioni in nome e per conto della stessa, svolga la propria attività presso la sede di quest’ultima non osta a che detto soggetto non possa essere qualificato come “agente commerciale”, ai sensi di tale disposizione, purché ciò non impedisca allo stesso di esercitare la sua attività in maniera indipendente”.

È sempre compito dei giudici di merito, come anche riaffermato dai giudici europei, valutare in concreto la sussistenza di tutti gli elementi che connotano la figura professionale in questione.

Se elemento caratterizzante è quello dell’indipendenza e se il mero svolgimento delle mansioni presso la sede del preponente non esclude la sua ricorrenza, per altro verso è stato affermato dai giudici comunitari che “l’indipendenza dell’agente commerciale può essere messa in discussione non solo dalla subordinazione alle istruzioni del preponente, ma anche dalle modalità di esercizio dei compiti che svolge” [[12]]. Se il soggetto subisce “condizionamenti” tali da far dubitare che il lavoro venga svolto in maniera indipendente, viene automaticamente meno un requisito essenziale per il configurarsi di tale qualifica.

L’agente è soggetto autonomo rispetto al preponente. È stato varie volte sostenuto, anche dalla giurisprudenza domestica, che il dovere da parte dell’agente di rispettare direttive, istruzioni e controlli da parte del preponente non è incompatibile con il carattere di autonomia del suo lavoro [[13]]. Neppure l’ossequio al dovere di informazione [[14]], la soggezione a disposizioni, controlli o ad altri tipi di ingerenze [[15]] presentano profili di incompatibilità.

I giudici di legittimità, con l’obiettivo di distinguere tra rapporto di agenzia e rapporto di lavoro subordinato, avevano affermato che il primo “ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un’attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell’agente, che si manifesta nell’autonomia nella scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto – secondo il disposto dall’art. 1746 c.c. – delle istruzioni ricevute dal preponente”, mentre oggetto del rapporto di lavoro subordinato è “la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica dell’imprenditore, che sopporta il rischio dell’attività svolta”[[16]].

Molto tempo prima, ancora sulla distinzione tra autonomia e subordinazione, la stessa Cassazione aveva osservato che “il contratto di agenzia si distingue da quello di lavoro subordinato perché in esecuzione di esso l’attività svolta dall’agente in favore di un’impresa è caratterizzata dall’autonomia organizzativa e dalla totale assunzione del rischio da parte dell’agente stesso, non essendo incompatibile col permanere di tale autonomia il fatto che il preponente impartisca a quest’ultimo direttive circa l’incarico affidatogli, senza con ciò incidere anche sull’organizzazione dell’esercizio professionale, e coordini o controlli l’attività di vari agenti attraverso un’organizzazione gerarchica dei medesimi, giustificandosi quest’ultima con la finalità di garantire una migliore efficienza dell’attività promozionale e non anche con quella di estrinsecare un potere di supremazia della stessa natura di quello proprio dell’imprenditore nel rapporto di lavoro subordinato” [[17]].

Elementi essenziali del rapporto sono anche la continuità e la stabilità, che possono desumersi sia direttamente dal contratto, sia attraverso le concrete modalità di esecuzione del rapporto. È noto che il rapporto di agenzia si distingue dal quello di procacciatore d’affari proprio per la continuità e la stabilità dell’attività dell’agente che, non limitandosi a raccogliere episodicamente le ordinazioni dei clienti, promuove stabilmente la conclusione di contratti per conto del preponente nell’ambito di una determinata sfera territoriale [[18]].

Il carattere dell’autonomia organizzativa incide anche sulla configurabilità della responsabilità verso terzi: “il carattere ausiliario e strumentale dell’attività dell’agente rispetto all’imprenditore preponente non incide sull’autonomia organizzativa e giuridica del suo lavoro e sulla qualifica di imprenditore autonomo che acquisisce, assumendo in proprio l’onere e le spese di organizzazione del lavoro ed il rischio del risultato dell’attività professionale svolta al fine di promuovere la conclusione di contratti, in una determinata zona, per conto del committente. Ne consegue che la responsabilità di quest’ultimo nei confronti dei terzi resta limitata all’ambito dei contratti di compravendita stipulati con costoro, nel senso che con riguardo alla vendita di cose mobili l’imprenditore preponente risponderà verso gli acquirenti, ex art. 1512 c.c., in forza della dovuta garanzia di buon funzionamento e, sul piano della responsabilità extracontrattuale, per il fatto colposo a lui imputabile che abbia determinato l’evento lesivo prodotto dal difettoso funzionamento della cosa venduta; mentre, oltre questi limiti, soprattutto ove l’agente abbia un’organizzazione di strumenti e di tecnici per la messa in opera delle cose prodotte dal committente e per un servizio di assistenza ai clienti, delle attività compiute dal personale dell’agenzia risponde, ex art. 2049 c.c., esclusivamente l’agente” [[19]].

IL CUMULO

Ad un soggetto che eserciti compiti ulteriori rispetto a quelli “tipici” non può negarsi la qualifica di agente commerciale, non essendovi preclusioni e cause di esclusione espressamente previste. È questa la conclusione cui è giunta la Corte di Giustizia, interpretando la Direttiva, nella sentenza sopra richiamata. Pertanto, un soggetto che, oltre all’attività di trattativa per vendere o acquistare merci in nome e per conto di altre persone, svolge per i medesimi soggetti altre attività di natura diversa, non necessariamente accessorie rispetto alla prima, può comunque essere qualificato come “agente commerciale”.

Non sussistono divieti di cumulo dell’attività di agente con attività di natura diversa, anche nell’ipotesi in cui le attività ulteriori abbiano la medesima importanza dell’attività di agenzia.

Tale impostazione non è certo dissimile dal più risalente orientamento della Corte di Cassazione, la quale ha affermato che “ove l’attività di promozione di contratti in una zona determinata, per conto del preponente, che costituisce elemento essenziale e qualificante del contratto di agenzia, venga eseguita contestualmente ad altre prestazioni di natura diversa, occorre avere riguardo, ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, alle prestazioni che presentino qualitativamente e quantitativamente carattere di prevalenza. Ne consegue che la disciplina giuridica del contratto di agenzia e quella che regola l’esercizio della professione di agente e rappresentante di commercio possono trovare applicazione solo quando risulti accertato che in concreto l’attività suddetta assuma carattere principale e prevalente rispetto alle altre prestazioni e sempre che ricorrano gli altri elementi essenziali del contratto di agenzia, come la stabilità dell’incarico, l’autonomia organizzativa ed operativa dell’agente, l’incidenza sul medesimo del rischio economico dell’attività svolta” [[20]].

Poiché la prima finalità della Direttiva 86/653 è la protezione dell’agente commerciale nella sua relazione con il preponente, non può essergli rifiutata la tutela per il solo motivo che il contratto che lo lega al preponente preveda anche l’esecuzione di compiti diversi rispetto a quelli connessi all’attività di agente commerciale. Non infrequentemente, a seconda delle specificità di ciascun settore, lo svolgimento dei compiti di agente commerciale è contestuale e concomitante all’esecuzione di prestazioni che, sebbene non rientranti nell’attività di negoziazione o conclusione di contratti, comunque ne costituiscono un preliminare, un completamento, un corollario, un accessorio.

Il cumulo di mansioni in capo alla stessa persona non deve tuttavia incidere sulla sua qualità di intermediario indipendente.

Fissato il principio di carattere generale, i giudici europei ritengono sia compito dei giudici di merito stabilire se l’esercizio di attività diverse contestualmente a quelle di agente, con tutte le implicazioni ad esse connesse (legate alla natura dei compiti svolti, alle proporzioni tra compiti, alla modalità di determinazione della retribuzione, alla sussistenza di rischio economico), possa o meno impedire l’esercizio in maniera indipendente dell’attività di agente, ed ancora affermano che “la circostanza che un soggetto eserciti non soltanto l’attività di trattativa per la vendita o l’acquisto di merci per un’altra persona o attività di trattativa e di conclusione di dette operazioni in nome e per conto di quest’ultima, ma anche attività di natura diversa per questa medesima persona, senza che la seconda tipologia di attività sia accessoria rispetto alla prima, non osta a che detto soggetto possa essere qualificato come “agente commerciale”, ai sensi di tale disposizione, purché tale circostanza non gli impedisca di esercitare la prima tipologia di attività in maniera indipendente, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” [[21]]. Ugualmente, ove la prevalenza sia per le attività ulteriori, secondo la CGE rientra tra le facoltà di ciascuno Stato Membro il prevedere l’esclusione dall’ambito di applicazione della Direttiva di tutti coloro che svolgano l’attività di agente in via accessoria.

Dall’orientamento della CGE non si discostano i nostri giudici, i quali concordano nel ritenere che ove l’attività di promozione di contratti in una zona determinata venga eseguita contestualmente ad altre prestazioni accessorie e di natura diversa poste convenzionalmente a carico dell’agente, ai fini della qualificazione del rapporto occorre avere riguardo alle prestazioni che presentino qualitativamente e quantitativamente carattere di prevalenza. Di conseguenza la disciplina del contratto di agenzia trova applicazione solo quando risulti accertato che in concreto l’attività di promozione abbia carattere principale e prevalente rispetto alle altre prestazioni e sempre che ricorrano gli altri elementi essenziali del contratto d’agenzia come la stabilità e l’autonomia organizzativa ed operativa [[22]] o l’incidenza sul medesimo del rischio economico dell’attività svolta [[23]].

Il criterio della prevalenza (sia quantitativa, sia qualitativa) assurge a discrimine fondamentale per distinguere il rapporto di agenzia sia da altri tipi di collaborazione autonoma, sia dal rapporto di lavoro subordinato.

L’ESCLUSIVA

L’esclusiva, in ragione di quanto dispone l’art. 1743 c.c., è elemento naturale del contratto di agenzia. Essa pertanto, in assenza di patto contrario, si presume.

L’art. 1743 c.c. prevede che il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro.

Preponente e agente sono legati da un rapporto fiduciario che necessita del carattere dell’esclusiva. L’obbligo reciproco che ne discende comporta anche il divieto di concorrenza, in modo che sia garantita la serena esecuzione del contratto e che entrambe le parti ricavino i massimi benefici.

La giurisprudenza domestica concordemente osserva che il diritto di esclusiva è elemento sottinteso (“in re ipsa”) del contratto di agenzia, in virtù del quale, ad esempio, l’agente non può svolgere la sua attività per conto di un altro imprenditore che sia in concorrenza col primo nella zona territoriale assegnatagli (c.d. zona riservata), così come il preponente non si può avvalere di diversi collaboratori per lo svolgimento dei medesimi affari in una medesima zona [[24]]. In questo modo si tutelano l’attività di impresa del preponente e le prospettive di guadagno dell’agente, il mercato non viene parcellizzato e non si corre il rischio di creare strane situazioni di concorrenza. Infine occorre sempre ricordare che “il diritto di esclusiva dell’agente non impedisce al preponente di contrattare personalmente nella zona riservatagli, purché la sua attività non assuma dimensioni tali da elidere quella dell’agente o da rendergli difficile l’assolvimento del proprio incarico” [[25]].

L’esclusiva è elemento naturale ma non essenziale del contratto: ad essa può derogarsi per volontà delle parti.

Un aspetto strettamente connesso alla facoltà di deroga è sicuramente quello delle c.d. provvigioni indirette. In ipotesi di deroga al diritto di esclusiva, da desumersi anche in via indiretta purché emerga in modo chiaro ed univoco una condotta incompatibile con l’esercizio del diritto, l’agente non può più pretendere la corresponsione delle provvigioni relative ad affari conclusi nella zona di competenza dal preponente sia direttamente sia tramite altri agenti (c.d. provvigioni indirette). Dall’accordo con cui le parti stabiliscano che il preponente può nominare più agenti nella stessa zona è consentito desumere anche l’esclusione della provvigione in relazione a quelle vendite concluse dallo stesso preponente, anche nell’ipotesi in cui sia stato convenuto un regime di esclusiva limitato agli affari trattati dagli agenti con determinati clienti nominativamente indicati.

IN CONCLUSIONE

Lo scambio di beni e servizi è uno dei pilastri fondamentali e storici della nostra economia.

Nell’attuale contesto di progressiva disgregazione delle frontiere economiche, in ogni singolo ordinamento statale si deve avvertire l’esigenza di evitare che gli operatori attivi sul territorio non patiscano squilibri di tutela giuridica nel raffronto con operatori appartenenti ad altri sistemi, al fine di consentire loro di svolgere la propria attività nelle migliori condizioni.

Nel corso degli ultimi decenni l’ordinamento italiano si è mostrato sensibile agli stimoli provenienti dall’Europa, anche se in molti casi si potrebbe opinare su tempi di attuazione o su determinate, specifiche, questioni di merito. Questi processi sono stati certamente agevolati dal lavoro della giurisprudenza interna, che ha saputo dimostrare duttilità oltre che sensibilità a certi stimoli, rendendosi compartecipe del processo evolutivo.

La disciplina del rapporto di agenzia assurge ad esempio pratico di integrazione ed omogeneizzazione dei diversi sistemi. Fondamentale si è rivelato il lavoro delle Corti, i cui contributi si sono rivelati talvolta ispiratori delle modifiche di legge che si sono avute lungo questo ultradecennale percorso.

Obiettivo finale è sempre quello di garantire l’effettività della tutela. Essa è anche strettamente connessa all’elemento del tempo, dal momento che il suo trascorrere amplifica la portata dei vuoti normativi e nega alle parti (specialmente a quelle “deboli”) il riconoscimento della giusta protezione. L’effettività non viene raggiunta con l’adozione in sé di un determinato provvedimento ma, anche e soprattutto, se i processi normativi e di armonizzazione vengono esauriti in tempi brevi o comunque “tollerabili” o comunque “fisiologici”. Ciò vale sia quando un ordinamento riceve “spinte” dal basso, sia quando deve recepire gli stimoli provenienti da organismi ad esso sovraordinati.

L’articolo è stato pubblicato sul portale di informazione giuridica “Diritto & Diritti” ed è leggibile al seguente link.


[1] Nello specifico: con D. Lgs. 10.9.1991, n. 303, sono stati modificati gli artt. 1742, 1748, 1750 e 1751 c.c. ed è stato introdotto l’art. 1751-bis c.c.; con D. Lgs. 15.2.1999, n. 65, sono stati modificati gli artt. 1742, 1746, 1748, 1749 e 1751 c.c.; con L. 21.12.1999, n. 526, è stato modificato l’art. 1746 c.c.; con L. 29.12.2000, n. 422, è stato modificato l’art. 1751-bis c.c.

[2] Cass. Civ., Sez. Lav., 15.5.1981, n. 3217.

[3] Cass. II Civ., 16.3.2015, n. 5165; Cass. Lav., 13.12.2019, ord. n. 32894.

[4] Cass. II Civ., 23.1.2017, n. 1657.

[5] Cass. Lav., 6.5.1996, n. 4167; Cass. Lav. 21.5.1997, n. 4540; Cass. Lav., 13.12.2019, ord. n. 32894. Cfr. anche Cass. in nota 4, la quale ha anche ritenuto inidoneo alla prova ogni riferimento a “indizi” o “fatti concludenti”.

[6] Cass. Civ., Sez. Lav., 14.4.2019, ord. n. 10732.

[7] Cass. in nota 6.

[8] Cass. in nota 6.

[9] Cass. Lav., 2.12.2019, ord. n. 31384, che con riguardo alla distinzione tra agenzia e lavoro subordinato richiama Cass. Lav., 23.4.2009, n. 9696.

[10] Cass. in nota 6, che riprende Cass. II Civ., 4.1.1977, n. 12, Cass. Lav. 9.7.1979, n. 3942, Cass. Lav., 13.12.1982, n. 6857 e, sulla nozione di giusta causa, richiama in termini Cass. n. 5072/1977, in Giur. It., 1978, I, 1, 1241.

[11] Cass. in nota 6.

[12] Cfr. sentenza indicata nelle premesse.

[13] Cass. Lav., 13.12.1982, n. 6857; Cass. Lav., 5.1.1984, n. 35; Cass. Lav., 30.8.2007, n. 18303; Cass. Lav., 16.7.2009, n. 16603.

[14] Cass. Lav., 5.1.1980, n. 34; Cass. Lav., 2.6.1980, n. 3601; Cass. Lav., 18.6.1985, n. 3673; Cass. Lav., 1.9.1986, n. 5364; Cass. Lav., 3.4.1990, n. 2680; Cass. Lav., 27.8.2001, n. 11263.

[15] Cass. Lav., 24.5.1986, n. 3507; Cass. Lav., 28.4.1987, n. 4111; Cass. Lav., 6.6.1989, n. 2742.

[16] Cass. Lav., 23.4.2009, n. 9696.

[17] Cass. Lav., 10.1.1984, n. 183.

[18] Cass. Lav., 22.11.2019, n. 30570, che richiama, fra le tante tra le tante, Cass. Lav., 23.7.2012, n. 12776 e Cass. Lav., 28.8.2013, n. 19828.

[19] Cass. III Civ., 13.6.1987, n. 5195.

[20] Cass. Lav., 13.12.1988, n. 6792.

[21] Cfr. sentenza indicata nelle premesse.

[22] Trib. Pisa, 21.7.2008.

[23] Cass. in nota 20.

[24] Cass. Lav., 19.3.1994, n. 2634.

[25] Cass. Lav.,  5.2.1969, n. 322.

La Cassazione sulla definizione di “termini d’uso” nella revocatoria fallimentare (Nota a Cass. I Civ., n. 25162/2016)

La Cassazione sulla definizione di “termini d’uso” nella revocatoria fallimentare (Nota a Cass. I Civ., n. 25162/2016)

Con la sentenza n. 25162 del 7.12.2016, la Prima Sezione della Corte di cassazione ha disciplinato l’applicazione della norma contenuta all’art. 67, co. 3, lett. a) della Legge Fallimentare, che esime dall’azione revocatoria fallimentare quei pagamenti di beni e servizi eseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa nei “termini d’uso”.

La Riforma del 2005 ha significativamente ristretto il ventaglio di ipotesi in cui poter instaurare revocatorie fallimentari, sia attraverso la riduzione del c.d. “periodo sospetto”, sia attraverso la previsione di varie esenzioni, una delle quali è qui in esame. Si tratta di strumenti attraverso cui il Legislatore ha inteso affrontare in maniera differente rispetto al passato le problematiche relative alla crisi d’impresa, in modo da favorire la conservazione dell’attività o, quanto meno, la gestione della crisi attraverso accordi coi creditori, con lo scopo espresso di agevolare la continuazione dell’impresa che si trovi in stato di crisi[1]. Il loro proficuo utilizzo può consentire di scongiurare l’interruzione in massa dei rapporti commerciali, di garantire un margine residuo di operatività dell’impresa, di non disperdere il valore di funzionamento dell’azienda e di non recidere processi di recupero della crisi in atto.

A fronte dell’intenzione espressa del Legislatore di valorizzare il bene della salvaguardia delle imprese versanti in stato di crisi, un sistema revocatorio ancora rigido – come era quello pre-riforma – rappresentava una grande contraddizione ed esponeva al rischio di vanificare ogni sforzo, poiché l’impresa restava soggetta al rischio di caducazione degli atti compiuti nella fase precedente alla dichiarazione di fallimento, anche ove inseriti in una fase di recupero e conservazione dell’attività.

Dall’altro lato del rapporto, scopo dell’esenzione è di “rassicurare i fornitori dell’imprenditore insolvente della stabilità di transazioni commerciali riconducibili ai normali rapporti di fornitura”[2].

Come si legge in Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, la ratio ispiratrice della norma è da individuarsi sia nell’esigenza di preservare la continuità dell’attività aziendale per garantire la conservazione dell’impresa in crisi in vista di un suo recupero, evitando che i fornitori, che vengono a conoscenza dello stato di difficoltà di quest’ultima, nel timore di una futura revoca dei pagamenti ricevuti, interrompano i rapporti, così impedendo la prosecuzione dell’attività, sia nell’esigenza di tutelare i terzi quando la normalità del rapporto lascia presupporre una mancanza di conoscenza in capo a questi ultimi dello stato di insolvenza. Analogamente, in precedenza, Trib. Bergamo, Sez. II, 14.11.2012, n. 2846, aveva affermato che la ratio della disposizione è tesa, da un lato, ad evitare che il manifestarsi della crisi induca i fornitori di beni necessari all’esercizio dell’ordinaria attività aziendale dell’imprenditore in crisi a sospendere i rapporti commerciali funzionali alla prosecuzione dell’impresa, in modo da aggravarne ulteriormente la crisi e, dall’altro, a tutelare l’accipiens, garantendo il consolidamento di pagamenti che, in quanto ricevuti nello svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e nei termini d’uso, sono sotto il profilo oggettivo tali da non far sorgere sospetto alcuno in merito alla solvibilità del debitore. Alcuni Giudici hanno però tentato di minimizzare la portata delle esimenti qualificando lo stato temporaneo di crisi dell’imprenditore come “eventuali momenti transeunti di mera difficoltà percepibili come tali” (Trib. Monza, 24.4.2012; Trib. Milano, 3.5.2012; Trib. Salerno, 30.1.2015).

La funzione cruciale ricoperta da questa disposizione rende necessario una analisi ermeneutica mirata a chiarire cosa debba intendersi per “termini d’uso”.

Se la prima parte della norma è chiara ed esaustiva (nel senso che si specifica che il pagamento esonerato è solo quello riconducibile ad una transazione commerciale conclusa in ragione dell’esercizio dell’attività di impresa), dubbi sono sorti in ordine all’interpretazione da darsi alla locuzione “termini d’uso”, oggetto di ampie discussioni in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Occorre dunque fornire la corretta definizione di “termini d’uso”, indagando le intenzioni del Legislatore: la questione, anche se solo esegetica, presenta profili di problematicità determinati dalla circostanza che ogni diversa opzione di scelta può spiegare conseguenze rilevanti nei confronti dei singoli operatori economici.

I precedenti in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Nel predetto lavoro di esegesi, una parte della dottrina ha inteso valorizzare l’elemento cronologico, ritenendo di dover sottrarre dall’azione revocatoria fallimentare quei pagamenti eseguiti entro un determinato periodo, rinvenendo dunque nel tempo dell’adempimento un elemento indiziario della “normalità del pagamento”[3]. Secondo altri interpreti la locuzione “termini d’uso” dovrebbe riferirsi alla “normalità delle modalità di effettuazione del pagamento” più che alla sua puntualità o alla sua collocazione cronologica[4]. V’è stato poi chi ha rimesso la valutazione sulla normalità del pagamento ad una analisi complessiva, confrontando le modalità dell’adempimento con il tempo[5]. Non può ignorarsi l’opinione di chi non ha ritenuto doversi procedere ad una determinazione aprioristica dei menzionati parametri, ritenendo che l’espressione in oggetto dovesse fungere da clausola generale attraverso cui il Legislatore si era rimesso ad una valutazione sociale tipica, pertanto rendendosi necessaria una analisi caso per caso da parte dell’interprete[6]. In dottrina non erano quindi univoche le risposte alla domanda se per “termini d’uso” occorresse far riferimento alle pratiche generali di mercato oppure ai singoli rapporti intercorrenti tra le parti, né se la locuzione fosse collegabile al solo tempus della prestazione, o alle sue modalità concrete o ad entrambi.

Nella Giurisprudenza ha invece prevalso la soluzione che preferiva dare efficacia dirimente alle soluzioni concretamente attuate dalle parti contraenti piuttosto che alle condizioni generali presenti nel mercato di riferimento.

In maggioranza i Tribunali hanno ritenuto di dover valorizzare sia le modalità di pagamento, sia il tempus, ad iniziare da Trib. Torino, Sez. VI, 23.4.2009, che ha concisamente riferito l’espressione “termini d’uso” al tempo e alle modalità di pagamento “utilizzati abitualmente fra i contraenti nell’esercizio normale dell’attività di impresa”.

Trib. Milano, Sez. II, 16.1.2012, n. 447, ha evidenziato che il senso della previsione di cui all’art. 67, co. 3, lett. a), L. Fall., è comprensivo sia della qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico e ordinario, sia del dato cronologico, ossia del tempo dell’adempimento (il caso era quello di una girata di assegni emessi da clienti della società poi fallita, che costituiva forma diversa da quella fisiologica). Trib. Milano, Sez. II, 3.5.2012, n. 5115, ha rimarcato la necessità che “il pagamento sia effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti, con l’ulteriore conseguenza che solo i pagamenti ritardati rispetto a quanto dalle parti concordato finirebbero per ricadere nell’area degli atti solutori revocabili”. Analogamente, qualche tempo dopo, Trib. Milano, 24.12.2012, ha affermato che la locuzione “nei termini d’uso” deve essere intesa sotto un duplice profilo concernente sia il tempo, sia le modalità del pagamento, imponendo essa di attenersi al criterio della regolarità dell’adempimento ed implicando la contestualità e/o la normalità dello scambio: ne conseguiva che dovevano ritenersi esenti da revocatoria i pagamenti avvenuti regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale, mentre non potevano beneficiare dell’esenzione i pagamenti effettuati in ritardo, a maggior ragione se avvenuti a seguito di solleciti. A tal riguardo, si veda anche Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, secondo cui l’esenzione opera sul piano oggettivo, essendo irrilevante lo stato soggettivo dell’accipiens, e la locuzione “termini d’uso” comprende sia la qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico ed ordinario, sia il dato cronologico, cioè il tempo del pagamento, con la conseguenza che per l’operatività della causa di esenzione è necessario che il pagamento sia stato effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti.

Per Trib. Monza, Sez. III, 24.4.2012, il concetto di “termini d’uso” fa riferimento alle condizioni di tempo e di modo dei pagamenti normalmente in uso tra i contraenti ed in concreto pattuiti tra le parti, sempre che siano mezzi fisiologici e usuali di pagamento, per cui “non possono divenire termini d’uso prassi patologiche e forme anormali di pagamento non concordate dalle parti all’inizio del rapporto negoziale” (più di recente, Trib. Torino, Sez. I, 2.3.2016, ha integralmente ripreso questa pronuncia).

In maniera non dissimile il Tribunale di Salerno (Sez. III, 18.6.2013, n. 1559; 4.11.2013) ha affermato l’operatività oggettiva (indipendentemente dall’accertamento dell’elemento psicologico) dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, identificabili con “le condizioni abitualmente utilizzate nei rapporti tra fallito ed accipiens”: “pagamenti nei termini d’uso sono quelli eseguiti con un mezzo fisiologico e ordinario ed effettuati nei tempi utilizzati nella concreta pregressa attività commerciale”, cioè “compiuti con lo stesso ritardo precedentemente tollerato dall’accipiens”, gravando sempre sul convenuto (quindi sul fallito) l’onere di provare la sussistenza dell’esimente. Più di recente, lo stesso Tribunale (Sez. III, 30.1.2015, n. 506) ha ricordato che la categoria normativa dei “termini d’uso” postula la riconducibilità del regolamento del rapporto commerciale a clausole e modalità di esecuzione puntuali e sicuramente identificabili nel contenuto.

Per Trib. Roma, Sez. Fall. 10.9.2014, la causa di esenzione postula “l’utilizzo di mezzi solutori ordinari ed il rispetto dei termini di pagamento originariamente convenuti tra le parti, ovvero di quelli che – pur diversi da quanto inizialmente previsto dai contraenti – siano riconducibili ad una convenzione tra di loro instauratasi successivamente in modo tacito o esplicito”. Già precedentemente i giudici capitolini avevano affermato che “deve intendersi eseguito nei termini d’uso quel pagamento che non solo sia avvenuto con mezzi normali ma anche con una tempistica coerente con il regolamento negoziale accettato dalle parti ovvero, in via subordinata usualmente in essere tra le parti e dunque anch’essa caratterizzata da profili di normalità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 21.5.2014, n. 11407; Id., 7.5.2014, nn. 10103 e 10102) o anche che per “termini d’uso” si deve fare riferimento “alle condizioni di tempo e al modo con cui i pagamenti sono stati effettuati, condizioni che siano state pattuite dalle parti o che rappresentino le modalità normali in uso tra le stesse: non possono ritenersi effettuati nei termini d’uso quegli adempimenti frutto di prassi patologiche ed anomale che non siano state concordate tra le parti all’origine del rapporto contrattuale” (Trib. Roma, Sez. Fall., 28.1.2014, n. 2085), nonostante altrove si fosse fatto esclusivo riferimento a operazioni di pagamento rientranti “nelle normali relazioni commerciali intrattenute tra le parti” che non presentavano “profili di anormalità e atipicità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 11.3.2014, n. 5731) o a “pagamenti effettuati regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale tra le parti” (Trib. Roma, Sez. Fall., 24.1.2014, n. 1821).

La decisione della Cassazione.

La questione giunta all’esame della Prima Civile, nei precedenti gradi di giudizio aveva avuto due differenti soluzioni. In primo grado il Tribunale ha inteso i “termini d’uso” come quelli correnti tra le parti al momento dell’atto solutorio, nell’ambito delle ordinarie attività dell’impresa operante in un determinato settore e ritenendo sussistente tra le parti l’uso, conforme alla prassi del settore, dei pagamenti in contanti della merce acquistata al dettaglio. Differentemente dai giudici di primo grado, la Corte d’Appello ha invece inteso i “termini d’suo” nel riferimento alle “abitudini del singolo imprenditore e non in base alle consuetudini generali relative a determinate tipologie contrattuali”.

Per la Cassazione “la dizione normativa non è particolarmente chiara, mentre lo è la ratio della norma, intesa a favorire la conservazione dell’impresa nell’ottica dell’uscita dalla crisi, mentre la precedente disciplina della revocatoria era ritenuta di serio ostacolo alle prospettive di risanamento dell’impresa”.

La norma riferisce i termini non alle prestazioni, ma necessariamente ai pagamenti effettuati.

La soluzione “più appagante” per i Giudici di Legittimità è quella che privilegia “il rapporto diretto tra le parti”, dando rilievo al mutamento dei termini “da intendersi non solo come tempi, ma anche come le complessive modalità di pagamento”. Vengono dunque in rilievo i singoli rapporti tra le parti perché, se invece dovesse riconoscersi valenza dirimente alle prassi del settore economico di riferimento, secondo la Cassazione, si finirebbe per equiparare la fattispecie in esame a quella di cui al co.1, n. 2, del medesimo art. 67 L. Fall. in materia di pagamenti anormali.

È stato conclusivamente affermato il principio per cui “il riferimento della L. Fall., art. 67, co. 3, lett. a), ai “termini d’uso”, ai fini dell’esenzione della revocatoria fallimentare per i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, attiene alle modalità di pagamento proprie del rapporto tra le parti e non già alla prassi del settore economico in questione”. Dal coordinamento tra le pronunce di merito più rilevanti e il principio di diritto espresso nella recentissima sentenza n. 25162/2016, può ben rilevarsi come esenti da azione revocatoria fallimentare siano tutti quei pagamenti eseguiti in modo aderente rispetto alle regole di un determinato rapporto contrattuale, sia con riferimento ai tempi dell’adempimento (pagamento), sia con riferimento alle sue concrete modalità.

[1] Cavalli, L’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti eseguiti nei termini d’uso, in Fallimento, 2010; Id., L’esenzione dei pagamenti eseguiti nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, in Fallimento, 2007; Zorzi, Riflessioni sull’esenzione da revocatoria ex art. 67, comma 3°, lett. a), L. Fall., alla luce dell’introduzione del concordato “in bianco”, in www.ilcaso.it; Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2006, 1;  Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Cedam, 2006; Pecoraro, Quando i termini diventano d’uso ai fini dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2015, 2.

[2] Percoraro, cit. nota 1.

[3] Per una rapida summa delle diverse opinioni emerse al riguardo: Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) della revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fallimento, 2005; Rago, cit. nota 1; Plenteda, Commento all’art. 67, co. 3, lett. a) c), f) g), in Trattato delle procedure concorsuali. 2 Le azioni revocatorie. I rapporti preesistenti, diretto da Ghia e Piccininni-Severini, Utet, 2010; Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Diritto Fallimentare, 2006, I; Angiolini, La nuova revocatoria fallimentare, in Rivista Notariato, 2005.

[4] Bonfatti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in AA.VV., Le Riforme sulla Legge Fallimentare, Utet, 2009; Id., Atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie, in AA.VV., Fallimento ed altre procedure concorsuali, Utet, 2009.

[5] Porzio, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Trattato di Diritto Fallimentare. Gli organi, gli effetti, la disciplina penalistica, Cedam, 2010.

[6] Giorgi, Le esenzioni dalla revocatoria fallimentare per favorire la normale prosecuzione dell’impresa (art. 67, comma 3, lettere a ed f, legge fallimentare), in Diritto Fallimentare, 2008.

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La Cassazione sulla definizione di “termini d’uso” nella revocatoria fallimentare.

La Cassazione sulla definizione di “termini d’uso” nella revocatoria fallimentare.

Con la sentenza n. 25162 del 7.12.2016, la Prima Sezione della Corte di cassazione ha disciplinato l’applicazione della norma contenuta all’art. 67, co. 3, lett. a) della Legge Fallimentare, che esime dall’azione revocatoria fallimentare quei pagamenti di beni e servizi eseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa nei “termini d’uso”.

La Riforma del 2005 ha significativamente ristretto il ventaglio di ipotesi in cui poter instaurare revocatorie fallimentari, sia attraverso la riduzione del c.d. “periodo sospetto”, sia attraverso la previsione di varie esenzioni, una delle quali è qui in esame. Si tratta di strumenti attraverso cui il Legislatore ha inteso affrontare in maniera differente rispetto al passato le problematiche relative alla crisi d’impresa, in modo da favorire la conservazione dell’attività o, quanto meno, la gestione della crisi attraverso accordi coi creditori, con lo scopo espresso di agevolare la continuazione dell’impresa che si trovi in stato di crisi[1]. Il loro proficuo utilizzo può consentire di scongiurare l’interruzione in massa dei rapporti commerciali, di garantire un margine residuo di operatività dell’impresa, di non disperdere il valore di funzionamento dell’azienda e di non recidere processi di recupero della crisi in atto.

A fronte dell’intenzione espressa del Legislatore di valorizzare il bene della salvaguardia delle imprese versanti in stato di crisi, un sistema revocatorio ancora rigido – come era quello pre-riforma – rappresentava una grande contraddizione ed esponeva al rischio di vanificare ogni sforzo, poiché l’impresa restava soggetta al rischio di caducazione degli atti compiuti nella fase precedente alla dichiarazione di fallimento, anche ove inseriti in una fase di recupero e conservazione dell’attività.

Dall’altro lato del rapporto, scopo dell’esenzione è di “rassicurare i fornitori dell’imprenditore insolvente della stabilità di transazioni commerciali riconducibili ai normali rapporti di fornitura”[2].

Come si legge in Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, la ratio ispiratrice della norma è da individuarsi sia nell’esigenza di preservare la continuità dell’attività aziendale per garantire la conservazione dell’impresa in crisi in vista di un suo recupero, evitando che i fornitori, che vengono a conoscenza dello stato di difficoltà di quest’ultima, nel timore di una futura revoca dei pagamenti ricevuti, interrompano i rapporti, così impedendo la prosecuzione dell’attività, sia nell’esigenza di tutelare i terzi quando la normalità del rapporto lascia presupporre una mancanza di conoscenza in capo a questi ultimi dello stato di insolvenza. Analogamente, in precedenza, Trib. Bergamo, Sez. II, 14.11.2012, n. 2846, aveva affermato che la ratio della disposizione è tesa, da un lato, ad evitare che il manifestarsi della crisi induca i fornitori di beni necessari all’esercizio dell’ordinaria attività aziendale dell’imprenditore in crisi a sospendere i rapporti commerciali funzionali alla prosecuzione dell’impresa, in modo da aggravarne ulteriormente la crisi e, dall’altro, a tutelare l’accipiens, garantendo il consolidamento di pagamenti che, in quanto ricevuti nello svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e nei termini d’uso, sono sotto il profilo oggettivo tali da non far sorgere sospetto alcuno in merito alla solvibilità del debitore. Alcuni Giudici hanno però tentato di minimizzare la portata delle esimenti qualificando lo stato temporaneo di crisi dell’imprenditore come “eventuali momenti transeunti di mera difficoltà percepibili come tali” (Trib. Monza, 24.4.2012; Trib. Milano, 3.5.2012; Trib. Salerno, 30.1.2015).

La funzione cruciale ricoperta da questa disposizione rende necessario una analisi ermeneutica mirata a chiarire cosa debba intendersi per “termini d’uso”.

Se la prima parte della norma è chiara ed esaustiva (nel senso che si specifica che il pagamento esonerato è solo quello riconducibile ad una transazione commerciale conclusa in ragione dell’esercizio dell’attività di impresa), dubbi sono sorti in ordine all’interpretazione da darsi alla locuzione “termini d’uso”, oggetto di ampie discussioni in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Occorre dunque fornire la corretta definizione di “termini d’uso”, indagando le intenzioni del Legislatore: la questione, anche se solo esegetica, presenta profili di problematicità determinati dalla circostanza che ogni diversa opzione di scelta può spiegare conseguenze rilevanti nei confronti dei singoli operatori economici.

I precedenti in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Nel predetto lavoro di esegesi, una parte della dottrina ha inteso valorizzare l’elemento cronologico, ritenendo di dover sottrarre dall’azione revocatoria fallimentare quei pagamenti eseguiti entro un determinato periodo, rinvenendo dunque nel tempo dell’adempimento un elemento indiziario della “normalità del pagamento”[3]. Secondo altri interpreti la locuzione “termini d’uso” dovrebbe riferirsi alla “normalità delle modalità di effettuazione del pagamento” più che alla sua puntualità o alla sua collocazione cronologica[4]. V’è stato poi chi ha rimesso la valutazione sulla normalità del pagamento ad una analisi complessiva, confrontando le modalità dell’adempimento con il tempo[5]. Non può ignorarsi l’opinione di chi non ha ritenuto doversi procedere ad una determinazione aprioristica dei menzionati parametri, ritenendo che l’espressione in oggetto dovesse fungere da clausola generale attraverso cui il Legislatore si era rimesso ad una valutazione sociale tipica, pertanto rendendosi necessaria una analisi caso per caso da parte dell’interprete[6]. In dottrina non erano quindi univoche le risposte alla domanda se per “termini d’uso” occorresse far riferimento alle pratiche generali di mercato oppure ai singoli rapporti intercorrenti tra le parti, né se la locuzione fosse collegabile al solo tempus della prestazione, o alle sue modalità concrete o ad entrambi.

Nella Giurisprudenza ha invece prevalso la soluzione che preferiva dare efficacia dirimente alle soluzioni concretamente attuate dalle parti contraenti piuttosto che alle condizioni generali presenti nel mercato di riferimento.

In maggioranza i Tribunali hanno ritenuto di dover valorizzare sia le modalità di pagamento, sia il tempus, ad iniziare da Trib. Torino, Sez. VI, 23.4.2009, che ha concisamente riferito l’espressione “termini d’uso” al tempo e alle modalità di pagamento “utilizzati abitualmente fra i contraenti nell’esercizio normale dell’attività di impresa”.

Trib. Milano, Sez. II, 16.1.2012, n. 447, ha evidenziato che il senso della previsione di cui all’art. 67, co. 3, lett. a), L. Fall., è comprensivo sia della qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico e ordinario, sia del dato cronologico, ossia del tempo dell’adempimento (il caso era quello di una girata di assegni emessi da clienti della società poi fallita, che costituiva forma diversa da quella fisiologica). Trib. Milano, Sez. II, 3.5.2012, n. 5115, ha rimarcato la necessità che “il pagamento sia effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti, con l’ulteriore conseguenza che solo i pagamenti ritardati rispetto a quanto dalle parti concordato finirebbero per ricadere nell’area degli atti solutori revocabili”. Analogamente, qualche tempo dopo, Trib. Milano, 24.12.2012, ha affermato che la locuzione “nei termini d’uso” deve essere intesa sotto un duplice profilo concernente sia il tempo, sia le modalità del pagamento, imponendo essa di attenersi al criterio della regolarità dell’adempimento ed implicando la contestualità e/o la normalità dello scambio: ne conseguiva che dovevano ritenersi esenti da revocatoria i pagamenti avvenuti regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale, mentre non potevano beneficiare dell’esenzione i pagamenti effettuati in ritardo, a maggior ragione se avvenuti a seguito di solleciti. A tal riguardo, si veda anche Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, secondo cui l’esenzione opera sul piano oggettivo, essendo irrilevante lo stato soggettivo dell’accipiens, e la locuzione “termini d’uso” comprende sia la qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico ed ordinario, sia il dato cronologico, cioè il tempo del pagamento, con la conseguenza che per l’operatività della causa di esenzione è necessario che il pagamento sia stato effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti.

Per Trib. Monza, Sez. III, 24.4.2012, il concetto di “termini d’uso” fa riferimento alle condizioni di tempo e di modo dei pagamenti normalmente in uso tra i contraenti ed in concreto pattuiti tra le parti, sempre che siano mezzi fisiologici e usuali di pagamento, per cui “non possono divenire termini d’uso prassi patologiche e forme anormali di pagamento non concordate dalle parti all’inizio del rapporto negoziale” (più di recente, Trib. Torino, Sez. I, 2.3.2016, ha integralmente ripreso questa pronuncia).

In maniera non dissimile il Tribunale di Salerno (Sez. III, 18.6.2013, n. 1559; 4.11.2013) ha affermato l’operatività oggettiva (indipendentemente dall’accertamento dell’elemento psicologico) dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, identificabili con “le condizioni abitualmente utilizzate nei rapporti tra fallito ed accipiens”: “pagamenti nei termini d’uso sono quelli eseguiti con un mezzo fisiologico e ordinario ed effettuati nei tempi utilizzati nella concreta pregressa attività commerciale”, cioè “compiuti con lo stesso ritardo precedentemente tollerato dall’accipiens”, gravando sempre sul convenuto (quindi sul fallito) l’onere di provare la sussistenza dell’esimente. Più di recente, lo stesso Tribunale (Sez. III, 30.1.2015, n. 506) ha ricordato che la categoria normativa dei “termini d’uso” postula la riconducibilità del regolamento del rapporto commerciale a clausole e modalità di esecuzione puntuali e sicuramente identificabili nel contenuto.

Per Trib. Roma, Sez. Fall. 10.9.2014, la causa di esenzione postula “l’utilizzo di mezzi solutori ordinari ed il rispetto dei termini di pagamento originariamente convenuti tra le parti, ovvero di quelli che – pur diversi da quanto inizialmente previsto dai contraenti – siano riconducibili ad una convenzione tra di loro instauratasi successivamente in modo tacito o esplicito”. Già precedentemente i giudici capitolini avevano affermato che “deve intendersi eseguito nei termini d’uso quel pagamento che non solo sia avvenuto con mezzi normali ma anche con una tempistica coerente con il regolamento negoziale accettato dalle parti ovvero, in via subordinata usualmente in essere tra le parti e dunque anch’essa caratterizzata da profili di normalità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 21.5.2014, n. 11407; Id., 7.5.2014, nn. 10103 e 10102) o anche che per “termini d’uso” si deve fare riferimento “alle condizioni di tempo e al modo con cui i pagamenti sono stati effettuati, condizioni che siano state pattuite dalle parti o che rappresentino le modalità normali in uso tra le stesse: non possono ritenersi effettuati nei termini d’uso quegli adempimenti frutto di prassi patologiche ed anomale che non siano state concordate tra le parti all’origine del rapporto contrattuale” (Trib. Roma, Sez. Fall., 28.1.2014, n. 2085), nonostante altrove si fosse fatto esclusivo riferimento a operazioni di pagamento rientranti “nelle normali relazioni commerciali intrattenute tra le parti” che non presentavano “profili di anormalità e atipicità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 11.3.2014, n. 5731) o a “pagamenti effettuati regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale tra le parti” (Trib. Roma, Sez. Fall., 24.1.2014, n. 1821).

La decisione della Cassazione.

La questione giunta all’esame della Prima Civile, nei precedenti gradi di giudizio aveva avuto due differenti soluzioni. In primo grado il Tribunale ha inteso i “termini d’uso” come quelli correnti tra le parti al momento dell’atto solutorio, nell’ambito delle ordinarie attività dell’impresa operante in un determinato settore e ritenendo sussistente tra le parti l’uso, conforme alla prassi del settore, dei pagamenti in contanti della merce acquistata al dettaglio. Differentemente dai giudici di primo grado, la Corte d’Appello ha invece inteso i “termini d’suo” nel riferimento alle “abitudini del singolo imprenditore e non in base alle consuetudini generali relative a determinate tipologie contrattuali”.

Per la Cassazione “la dizione normativa non è particolarmente chiara, mentre lo è la ratio della norma, intesa a favorire la conservazione dell’impresa nell’ottica dell’uscita dalla crisi, mentre la precedente disciplina della revocatoria era ritenuta di serio ostacolo alle prospettive di risanamento dell’impresa”.

La norma riferisce i termini non alle prestazioni, ma necessariamente ai pagamenti effettuati.

La soluzione “più appagante” per i Giudici di Legittimità è quella che privilegia “il rapporto diretto tra le parti”, dando rilievo al mutamento dei termini “da intendersi non solo come tempi, ma anche come le complessive modalità di pagamento”. Vengono dunque in rilievo i singoli rapporti tra le parti perché, se invece dovesse riconoscersi valenza dirimente alle prassi del settore economico di riferimento, secondo la Cassazione, si finirebbe per equiparare la fattispecie in esame a quella di cui al co.1, n. 2, del medesimo art. 67 L. Fall. in materia di pagamenti anormali.

È stato conclusivamente affermato il principio per cui “il riferimento della L. Fall., art. 67, co. 3, lett. a), ai “termini d’uso”, ai fini dell’esenzione della revocatoria fallimentare per i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, attiene alle modalità di pagamento proprie del rapporto tra le parti e non già alla prassi del settore economico in questione”. Dal coordinamento tra le pronunce di merito più rilevanti e il principio di diritto espresso nella recentissima sentenza n. 25162/2016, può ben rilevarsi come esenti da azione revocatoria fallimentare siano tutti quei pagamenti eseguiti in modo aderente rispetto alle regole di un determinato rapporto contrattuale, sia con riferimento ai tempi dell’adempimento (pagamento), sia con riferimento alle sue concrete modalità.

[1] Cavalli, L’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti eseguiti nei termini d’uso, in Fallimento, 2010; Id., L’esenzione dei pagamenti eseguiti nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, in Fallimento, 2007; Zorzi, Riflessioni sull’esenzione da revocatoria ex art. 67, comma 3°, lett. a), L. Fall., alla luce dell’introduzione del concordato “in bianco”, in www.ilcaso.it; Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2006, 1;  Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Cedam, 2006; Pecoraro, Quando i termini diventano d’uso ai fini dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2015, 2.

[2] Percoraro, cit. nota 1.

[3] Per una rapida summa delle diverse opinioni emerse al riguardo: Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) della revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fallimento, 2005; Rago, cit. nota 1; Plenteda, Commento all’art. 67, co. 3, lett. a) c), f) g), in Trattato delle procedure concorsuali. 2 Le azioni revocatorie. I rapporti preesistenti, diretto da Ghia e Piccininni-Severini, Utet, 2010; Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Diritto Fallimentare, 2006, I; Angiolini, La nuova revocatoria fallimentare, in Rivista Notariato, 2005.

[4] Bonfatti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in AA.VV., Le Riforme sulla Legge Fallimentare, Utet, 2009; Id., Atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie, in AA.VV., Fallimento ed altre procedure concorsuali, Utet, 2009.

[5] Porzio, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Trattato di Diritto Fallimentare. Gli organi, gli effetti, la disciplina penalistica, Cedam, 2010.

[6] Giorgi, Le esenzioni dalla revocatoria fallimentare per favorire la normale prosecuzione dell’impresa (art. 67, comma 3, lettere a ed f, legge fallimentare), in Diritto Fallimentare, 2008.

 

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Le clausole compromissorie negli statuti delle società cooperative edilizie (Nota a Cass. VI Civ., 13.6.2016, n. 12124).

Le clausole compromissorie negli statuti delle società cooperative edilizie (Nota a Cass. VI Civ., 13.6.2016, n. 12124).

Periodicamente la Cassazione torna sul tema del raggio d’azione delle clausole compromissorie inserite negli Statuti delle società cooperative edilizie. La recente ordinanza della VI Sezione Civile (n. 12124 del 13.6.2016), nella sua brevità, pur confermando un orientamento ormai stabile, offre alcuni importanti spunti di riflessione.

La vicenda.

Una ex socia di una cooperativa edilizia proponeva opposizione all’esecuzione immobiliare dalla società intrapresa in suo danno per l’omesso pagamento del saldo del prezzo d’acquisto dell’immobile assegnato e trasferitole in proprietà.

L’opposizione (proposta dopo la sua esclusione) fondava sulla sostenuta non debenza degli importi pretesi dalla cooperativa, avendo l’immobile una superficie abitabile inferiore a quella originariamente pattuita. Nel successivo giudizio di merito era stata anche avanzata una domanda riconvenzionale di riduzione del prezzo.

Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 500/2015, declinava la propria competenza a decidere la controversia ritenendo competente, in virtù dell’art. 39 dello statuto societario, il collegio arbitrale.

Impugnata la decisione con regolamento di competenza, veniva dunque riproposta dinanzi alla Cassazione la questione dei limiti all’applicabilità di una clausola compromissoria inserita in uno statuto di una società cooperativa edilizia.

La decisione.

La VI Sezione, nel solco tracciato da precedenti decisioni, ha accolto il regolamento di competenza proposto dall’ex socia e rinviato gli atti al Tribunale di Firenze.

Riferiscono i Giudici di Legittimità: “l’art. 39 dello statuto societario, posto dal tribunale a fondamento della sentenza declinatoria della propria competenza, deve riferirsi, per il tenore testuale della clausola, e per la ratio sottesa, ai soli rapporti societari nascenti dal contratto sociale, e quindi ai rapporti c.d. endosocietari”, mentre nel caso di specie la socia era stata esclusa con provvedimento (non impugnato) precedente alla proposizione dell’opposizione, che aveva ad oggetto “il puntuale adempimento o meno da parte della cooperativa venditrice, delle obbligazioni derivanti dall’atto di trasferimento in proprietà dell’immobile, e quindi a rapporti che non sono qualificabili endosocietari”.

Espresso è stato il richiamo a Cass. VI Civ. n. 723/2013, “in cui si chiarisce che il socio di società cooperativa è parte di due distinti anche se collegati rapporti, uno di carattere associativo derivante dall’adesione al contratto sociale e l’altro che deriva dal contratto bilaterale di scambio, e che l’acquisto della proprietà dell’alloggio da parte dei soci, per la cui realizzazione l’ente è stato costituito, passa attraverso la conclusione di un contratto di scambio la cui causa è del tutto omogenea a quella della compravendita, in relazione alla quale la cooperativa assume la veste dell’alienante e il socio la veste dell’acquirente”.

Per concludere, “la presenza di una clausola compromissoria nel solo statuto della cooperativa non è idonea a radicare la competenza arbitrale per quelle cause tra la cooperativa e soggetti che siano stati suoi soci che non traggono origine da rapporti endosocietari e che attengano solo al trasferimento in proprietà dell’immobile costruito dalla cooperativa, dovendosi ritenere necessario a questo scopo o una espressa previsione dell’applicabilità della clausola statutaria anche ai rapporti di assegnazione e trasferimento in proprietà degli immobili, o l’inserimento di un’autonoma clausola nell’atto di prenotazione o nel successivo atto di assegnazione o nell’atto di trasferimento”.

Alcune riflessioni suggerite dall’ordinanza in commento.

Sotto un profilo meramente statistico, deve rilevare come da più parti si confondano ancora funzioni e finalità dei diversi atti che legano una cooperativa edilizia ai soci. A tanto non può che collegarsi l’auspicio che i vari spunti offerti da questo nuovo contributo possano rendere ancora più chiara la materia.

Il primo dei temi toccati è quello dei limiti (soggettivi) dello statuto societario, vale a dire dei limiti alla sua applicabilità una volta che sia venuto meno il vincolo sociale.

Al riguardo, può sostenersi che l’esclusione – non impugnata – del socio, comporti la risoluzione del rapporto sociale ed il venir meno dell’applicabilità delle disposizioni interne al sodalizio. Le disposizioni societarie trovano un limite sia soggettivo, sia oggettivo, nella cessazione del rapporto, attesa la nuova qualità di “terzo” assunta dal socio escluso: quindi nell’ipotesi di fatti e diritti successivi all’uscita del socio, poiché lo coinvolgono uti tertius, non può trovare applicazione la clausola compromissoria prevista nello statuto [[1]].

Nel prosieguo, la distinzione tra conferimenti sociali ed esborsi di carattere straordinario (necessari per la realizzazione degli alloggi) [[2]], appare funzionale al richiamo a Cass. n. 723/2013 e al principio ivi espresso, secondo cui “nelle cooperative edilizie che hanno per oggetto sociale la costruzione di alloggi da assegnare ai soci, le anticipazioni e gli esborsi sopportati dal socio per conseguire la proprietà dell’alloggio trovano giustificazione in un rapporto di scambio, ben distinto dal rapporto associativo, dal quale trae invece origine l’obbligo dei conferimenti e della contribuzione alle spese comuni di organizzazione ed amministrazione, ricollegandosi questi ultimi alla qualità di socio, che deriva dall’adesione alla cooperativa e permane fino a suo scioglimento ovvero al recesso o all’esclusione del socio, ed i primi ad un atto di trasferimento avente una causa omogenea a quella di una comune compravendita, nell’ambito del quale la società assume la veste di alienante e il socio quella di acquirente” [[3]].

La regolamentazione del rapporto di scambio, in coerenza con la sua natura, è da ricercare nella sua specifica fonte contrattuale e nei principi propri del contratto sinallagmatico di compravendita, dovendosi aver riguardo alla disciplina societaria solo nella misura in cui essa sia stata in quel contratto espressamente o implicitamente richiamata [[4]]. Ogni diversa impostazione si porrebbe in conflitto con le disposizioni in materia di ermeneutica soggettiva della volontà negoziale (art. 1362 c.c.).

Ma questo è soltanto il punto di approdo. Tra i punti di partenza c’è stato certamente il riconoscimento della “autonomia” di “causa giuridica” del rapporto associativo in una società cooperativa edilizia rispetto al rapporto di scambio finalizzato all’acquisto di un immobile (cfr. Cass. n. 15550/2000, cui seguirono Cass. n. 9393/2004, Cass. n. 2612/2007, Cass. n. 13641/2013) [[5]] e la constatazione che gli esborsi e le anticipazioni di carattere straordinario ai fini dell’acquisto del terreno, della realizzazione degli alloggi, etc., non sono strettamente inerenti al rapporto sociale e sono destinati a gravare sul socio subentrante, ponendo il socio nella posizione di creditore nei confronti della Cooperativa Edilizia, posizione che si manifesta come diritto alla restituzione delle somme anticipate, non sottoposto alla disciplina legislativa relativa alla quota sociale (Cass. n. 6197/2008; Cass. n. 9393/2004, in Giust. Civ. Mass. 2004 e DeG 2004).

L’ultimo assunto circa la necessità di una “espressa previsione dell’applicabilità della clausola statutaria anche ai rapporti di assegnazione e trasferimento in proprietà degli immobili, o l’inserimento di un’autonoma clausola nell’atto di prenotazione o nel successivo atto di assegnazione o nell’atto di trasferimento”, ispirato dalla sentenza n. 723/2013 (che aveva regolato invece una situazione in cui erano presenti due clausole compromissorie: una nello statuto e l’altra nell’atto di assegnazione), offre lo spunto per la conclusiva riflessione sulla disciplina dei collegamenti contrattuali e le relative ripercussioni sotto il profilo della giurisdizione.

Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite (n. 13894 del 14.6.2007) a sancire che “il collegamento contrattuale non attiene ai profili processuali, ma sostanziali del regolamento contrattuale, con la conseguenza che i suoi effetti non si estendono alla giurisdizione, che trovi disciplina nella clausola di uno dei contratti collegati. Il patto di proroga della giurisdizione, che accede ad un contratto, non trova applicazione rispetto al contratto collegato e non determina lo spostamento della competenza giurisdizionale”. Con specifico riferimento alla materia societaria, Cass. n. 7501/2014 ha escluso che, tramite la clausola compromissoria contenuta in un determinato contratto, la deroga alla giurisdizione del giudice ordinario e il deferimento agli arbitri possano estendersi a controversie relative ad altri contratti, ancorché collegati al contratto principale, cui accede la predetta clausola, senza che essa sia in alcun modo richiamata, affermando che la clausola compromissoria contenuta nel contratto sociale deve essere interpretata, in mancanza di volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le controversie inerenti al rapporto societario e relative a pretese aventi la loro causa petendi nel medesimo contratto sociale, ove lo stesso non rappresenti un mero presupposto storico sul quale si innesta il diritto rivendicato (Cfr. anche Cass. n. 2598/2006) [[6]]. Cass. n. 1674/2012 ha sottolineato che la clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce, va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi causa petendi nel contratto medesimo, con esclusione quindi delle controversie che in quel contratto hanno unicamente un presupposto storico.

Può apparire strano che una decisione così breve abbia consentito un approfondimento su tre aspetti complessi e diversi, seppur connessi tra loro. Una simile attività è certamente facilitata nelle ipotesi in cui, pur esaminando decisioni disciplinanti profili differenti, la Cassazione utilizza in maniera coerente i principi precedentemente enunciati, onorando in pieno il suo ruolo “ordinatore” e nomofilattico.

[1] Cfr. Cass. n. 6052/1978; Cass. n. 1213/1980; Trib. Milano, 26.7.1999. In dottrina, cfr. Nela, sub art. 34, ne Il nuovo processo societario (a cura di Chiarloni), 2004. In Cass. n. 12077/1990 si legge di compromissione in arbitri che accede ad un contratto di società e che individua nella qualità di soci della stessa Società gli “estremi soggettivi” della controversia sottratta all’Autorità Giudiziaria Ordinaria, ed ancora che “ciò che viene in gioco è proprio quella qualifica soggettiva prevista dalla clausola compromissoria, come situazione atta a devolvere agli arbitri il giudizio … purché la lite coinvolga i soci, e solo i soci”. Sul punto si segnala il contributo di altra, autorevole, dottrina: Montesano – Arieta nel loro Trattato di Diritto Processuale Civile (Vol. 2, Tomo 2, Cap. 1171), sostengono che il patto compromissorio “può venire meno (…) per il venire meno del contratto nel quale era contenuta la relativa clausola (…). Se le parti, nell’ambito della loro autonomia sottoscrivono patti novativi o risolutivi del contratto nel quale era inserito il patto commissorio, ciò comporta, ci sembra, la sopravvenuta estinzione di quest’ultimo in relazione a tutte le controversie che dovessero insorgere tra le stesse per fatti successivi all’intervenuta novazione o risoluzione” ed ancora che “resta esclusa dalla competenza arbitrale (Cass. 25.8.1998, n. 8410), ogni pretesa occasionata da un rapporto contrattuale ormai esaurito, in quanto le parti, rimettendo agli arbitri le possibili controversie in tema di interpretazione e di esecuzione di un contratto, hanno riguardo solo a quelle legate da rapporto di causalità giuridica rispetto ad esso”.

[2] Vd. infra.

[3] Oltre alla riportata Cass. n. 723/2013, cfr. Cass. 9393/2004, Cass. 6016/2003, Cass. 15550/2000.

[4] Cfr. Cass. 19080/2012 (richiamata da Cass. 17465/2014), Cass. 7646/2007, Cass. 6016/2003.

[5] Secondo Cass. n. 13641/2013 (da ultimo) in tema di cooperative edilizie deve distinguersi tra il rapporto sociale-associativo e quello di scambio, di natura sinallagmatica, rapporti che, pur collegati, hanno causa giuridica autonoma. Ne deriva che il pagamento di una somma, eseguito dal socio a titolo di prenotazione dell’immobile, deve essere ascritto al rapporto di scambio e perciò al pagamento del prezzo di acquisto, alla cui restituzione la cooperativa è tenuta in caso di scioglimento del rapporto sociale. Sempre con riferimento all’aspetto patrimoniale, Cass. n. 2612/2007 ricorda che occorre distinguere tra somme versate dal socio a titolo di spese generali, necessarie per l’amministrazione e l’organizzazione della Cooperativa in quanto tale (“obbligo correlato alla qualità di socio”, secondo Cass. n. 15550/2000) e somme versate in funzione dell’assegnazione dell’alloggio, che non sono strettamente inerenti il rapporto sociale. La distinzione dei due rapporti è netta in Cass. n. 5014/2013, secondo cui il socio di società cooperativa edilizia “in qualità di beneficiario del servizio mutualistico reso dalla società, è parte non solo di un rapporto di carattere associativo, derivante dall’adesione al contratto sociale e dalla conseguente acquisizione della qualità di socio, ma anche di un altro rapporto, per lo più di natura sinallagmatica, derivante dal contratto bilaterale di scambio per effetto del quale egli si appropria del bene o del servizio resogli dall’ente”.

[6] Principi espressi anche da Cass. SS.UU. n. 7398/1998, nonché da Cass. 5371/2001.

Il collegamento ex lege tra contratto di compravendita e contratto di finanziamento (Nota a Cass. III Civ., 27.9.2016, n. 19000)

Tra un contratto di compravendita ed un contratto di finanziamento necessario ad ottenere risorse economiche utili alla conclusione del primo sussiste un collegamento negoziale ex lege che, in quanto tale, prescinde dall’esistenza o meno di una clausola di esclusiva.

È questo il principio di diritto desumibile da Cass. n. 1900/2016, pronuncia che presenta profili di interesse anche per taluni rilievi fondati sulla normativa europea.

Il caso

L’acquirente di un’autovettura agiva giudizialmente per la risoluzione del contratto di compravendita, non avendo l’impresa venditrice adempiuto alla consegna del bene. Egli agiva altresì nei confronti della banca che aveva erogato il finanziamento per mezzo del quale la vettura era stata acquistata, ai fini della risoluzione di quest’ultimo contratto, sul presupposto dell’esistenza di un collegamento tra i due negozi.

In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda dell’attore nei confronti della venditrice, condannandola al pagamento delle somme corrisposte e da corrispondersi dall’acquirente alla banca, rigettando però la domanda proposta nei confronti di quest’ultima. La decisione veniva confermata in appello.

Inquadramento normativo e ragioni del ricorso per cassazione.

La decisione di secondo grado veniva impugnata con ricorso per cassazione per violazione dell’art. 113 cpc, dell’art. 124, co. 2 e 3, T.U.B. (nella formulazione originaria, applicabile ratione temporis) e dell’art. 1453 cc.

Il ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiarare anche la risoluzione del contratto di finanziamento in virtù del collegamento legale tra contratto di compravendita e contratto di finanziamento, che avrebbe dovuto trovare fondamento nell’art. 124 TUB, applicabile dal Giudice ai sensi dell’art. 113 cpc anche in mancanza di una richiesta attorea, essendo rinvenibili tutti gli elementi fattuali richiesti dalla norma.

L’art. 124, co. 2 e 3, T.U.B. (nella formulazione in vigore sino al 2010, applicabile al caso di specie) elencava i requisiti indispensabili per i contratti di credito al consumo (in particolare, “la descrizione analitica dei beni e dei servizi; b) il prezzo di acquisto in contanti, il prezzo stabilito dal contratto e l’ammontare dell’eventuale acconto; c) le condizioni per il trasferimento del diritto di proprietà, nei casi in cui il passaggio della proprietà non sia immediato”). La nozione di credito al consumo non deve però essere necessariamente confinata al solo atto dell’acquisto di beni o servizi, ma comprende tutte quelle operazioni di concessione, nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altre facilitazioni finanziarie a favore di una persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (per l’appunto, un consumatore).

Nella sentenza di primo grado, confermata in appello, il collegamento tra i due contratti era stato escluso per l’assenza della clausola di esclusiva richiesta dall’art. 42 del Codice del Consumo. Secondo questa disposizione, “nei casi di inadempimento del fornitore di beni e servizi, il consumatore che abbia effettuato inutilmente la costituzione in mora ha diritto di agire contro il finanziatore nei limiti del credito concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore. La responsabilità si estende anche al terzo, al quale il finanziatore abbia ceduto i diritti derivanti dal contratto di concessione del credito”.

A parere del ricorrente per cassazione, i giudici dei due precedenti gradi avevano compiuto un’errata lettura ed applicazione della disposizione, anche alla luce della direttiva comunitaria 87/102/CEE del 22.12.1986 e dell’interpretazione resa dalla C.G.E. con la sentenza del 23.4.2009 nella causa C-509/07.

L’interpretazione della Corte di Giustizia Europea

La direttiva 87/102 istituisce un’armonizzazione minima in materia di credito al consumo, che non esclude che gli Stati Membri possano mantenere o adottare misure più severe per la protezione del consumatore.

In tale ottica si pone anche l’art. 11 della Direttiva che, da una parte, prevede il diritto per il consumatore di procedere contro il creditore in caso di mancata o inesatta esecuzione delle obbligazioni da parte del fornitore e, dall’altra, subordina tale diritto ad una serie di condizioni, tra cui l’esistenza di un rapporto di esclusiva tra fornitore e creditore.

Detta disposizione deve essere però letta alla luce del ventunesimo “considerando” della medesima direttiva che, con riferimento al regime istituito dall’art. 11, prescrive espressamente che “il consumatore, almeno nelle circostanze sotto definite, deve godere, nei confronti del creditore, di diritti che si aggiungono ai suoi normali diritti contrattuali nei riguardi di questo” e che “le circostanze di cui sopra sussistono quando tra il creditore ed il fornitore di beni o servizi esiste un precedente accordo in base al quale il credito è messo da quel creditore a disposizione esclusivamente dei clienti di quel fornitore per consentire al consumatore l’acquisto di merci o di servizi da tale fornitore”.

Da ciò consegue che il diritto di procedere in giudizio di cui all’art. 11, co. 2, Dir. 87/102 costituisce una protezione supplementare offerta al consumatore nei riguardi del creditore, che si aggiunge alle azioni che il consumatore può già esercitare sulla base delle disposizioni nazionali applicabili ad ogni rapporto contrattuale.

Il fine perseguito dalla Direttiva è garantire una tutela minima nei confronti del consumatore, il quale non può esercitare alcuna influenza sul rapporto tra il fornitore e il creditore, circostanza che lo pone in balìa delle condizioni contrattuali sì come negoziate tra questi due imprenditori. Il fatto di subordinare in ogni caso l’esercizio del diritto del consumatore di procedere contro il debitore alla condizione dell’esistenza di una clausola di esclusiva tra il creditore ed il fornitore, si porrebbe in contrasto con l’obiettivo stesso della direttiva 87/102, che è in primo luogo quello di tutelare il consumatore in quanto “parte debole” del contratto.

Conclude la C.G.E. che la possibilità per il consumatore di agire anche nei confronti del creditore per ottenere la risoluzione del contratto di finanziamento e la restituzione delle somme già corrisposte non può essere subordinata alla preesistenza di una clausola di esclusiva.

La decisione della Cassazione

Secondo i Giudici di Legittimità, l’esistenza o meno di una clausola di esclusiva tra fornitore e finanziatore non è presupposto necessario del diritto del consumatore di procedere contro il creditore in caso di inadempimento delle obbligazioni da parte del fornitore al fine di ottenere (anche) la risoluzione del contratto di credito e la conseguente restituzione delle somme corrisposte al finanziatore.

Già precedentemente la Cassazione (n. 20477/2014 e n. 19522/2015), in applicazione degli artt. 121 e 124 T.U.B. (nella loro originaria formulazione), aveva avuto modo di affermare la sussistenza di un collegamento negoziale di fonte legale tra i contratti di credito al consumo finalizzati all’acquisto di determinati beni o servizi e i contratti d’acquisto dei medesimi. E ciò prescindendo dalla presenza di un’esclusiva del finanziatore per la concessione del credito ai clienti dei fornitori. Per tale ragione, veniva demandato al Giudice il compito di individuare quali effetti producesse il collegamento negoziale sussistente per legge tra contratto di finanziamento e contratto di vendita.

In particolare, Cass. n. 20477/2014 aveva affermato che nell’ipotesi in cui un contratto di vendita sia risolto per inadempimento del venditore, il consumatore non è tenuto a pagare il finanziamento attivato. Aveva poi proseguito statuendo che il contratto di credito collegato è quello finalizzato esclusivamente a finanziare la fornitura di un bene o la prestazione di un servizio specifici se ricorre almeno una delle seguenti condizioni: nella prima il finanziatore si avvale del fornitore del bene o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito; nella seconda il bene o il servizio specifici sono esplicitamente individuati nel contratto di credito.

Più in generale, può dirsi che vi è collegamento quando un contratto trova la propria causa nell’altro, risultando dunque essi preordinati all’espletamento di una funzione unitaria. L’elemento di connessione può o essere frutto dell’autonomia negoziale, o discendere da una fonte legale.

Nella decisione in commento, conformemente alle pronunce cui si è testé fatto cenno, la Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello sia caduta in errore nel momento in cui non ha valutato la richiesta di disapplicazione dell’art. 42 cod. cons. (che tutela il consumatore solo in presenza di una clausola di esclusiva), dunque ignorando gli indirizzi espressi dalla Corte di Giustizia, errando altresì nel ritenere non censurata la sentenza di primo grado nella parte in cui rilevava la mancanza della clausola di esclusiva, avendo invece l’appellante chiesto proprio la disapplicazione della relativa norma.

La decisione di secondo grado è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione, la quale dovrà pronunziarsi anche sulla risoluzione del contratto di finanziamento, traendo le conseguenze dell’incidenza sul contratto di finanziamento della già accertata risoluzione del contratto di compravendita, in presenza di un collegamento non più qualificabile come “volontario”, ma legale”.

La regola cui attenersi è quella di presupporre l’esistenza di un collegamento tra contratto di compravendita e contratto di finanziamento, che sussiste ex lege e non in forza dell’esercizio dell’autonomia contrattuale delle parti e che, pertanto, prescinde dalla presenza di una clausola di esclusiva.