La Cassazione torna a pronunciarsi su anatocismo, accettazione tacita e oneri probatori (Nota a Cass. VI Civ., 13258/2017).

La Cassazione torna a pronunciarsi su anatocismo, accettazione tacita e oneri probatori (Nota a Cass. VI Civ., 13258/2017).

Di recente la Cassazione è nuovamente intervenuta sulla questione dell’onere probatorio nelle controversie riguardanti i rapporti bancari in conto corrente e, con la sentenza in esame, ha cristallizzato un orientamento che appariva già stabile.

La sentenza di appello successivamente impugnata per Cassazione, per la parte che a noi qui interessa, aveva trattato le questioni del “saldo zero” (affermando che se il credito esistente in un dato periodo, successivo all’inizio dei rapporti bancari, può essere ricostruito con prove diverse dagli estratti conto, “esso non può ritenersi pari a zero”), dell’omessa contestazione degli estratti conto e dell’errata applicazione di clausole invalide.

Per i Giudici di Legittimità, anzitutto, l’approvazione anche tacita degli estratti di conto corrente non implica l’insussistenza di addebiti illegittimi da parte della banca: essa non si estende alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti, ma ha solo la funzione di certificare la verità storica dei dati riportati nel conto. Pertanto la omessa contestazione dell’estratto conto e la connessa (implicita) approvazione delle operazioni in esso annotate riguardano solo gli accrediti e gli addebiti considerati nella loro realtà effettuale. Da tanto si può far anche discendere che l’accettazione tacita seguente l’omessa contestazione, mancando un adeguato supporto probatorio da parte di chi avanza una determinata pretesa, non può costituire base di calcolo utilmente spendibile, dovendosi invece partire dall’azzeramento del saldo.

Poi la Suprema Corte passa ad analizzare la questione principale, affermando che nei rapporti bancari in conto corrente, se è stata esclusa la validità della pattuizione degli interessi ultralegali a carico del correntista per mancanza dei requisiti di legge, grava sull’istituto di credito l’onere di provare l’entità degli importi mediante la produzione degli estratti a partire dall’apertura del conto. A tal riguardo inoltre la banca, al fine di sottrarsi a questo onere, non può neppure invocare l’insussistenza dell’obbligo di conservazione ultradecennale delle scritture contabili, essendo esso cosa diversa dall’obbligo di prova del proprio credito: in caso contrario, l’inesistenza di tale obbligo, per il decorso del tempo, potrebbe determinare una condizione di favore per la banca rispetto a una posizione creditoria solo prospettata, sollevandola dall’onere di dare piena dimostrazione del credito vantato. La banca non può sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione poiché tale obbligo è semmai volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all’attività imprenditoriale e non ad esimere dall’onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore.

Tanto vale anche in ipotesi di illegittima applicazione di interessi anatocistici non dovuti: negata la validità della clausola sulla quale sono stati calcolati gli interessi, solo la produzione degli estratti conto a partire dall’apertura del conto corrente consente di determinare il saldo (creditore o debitore) attraverso l’integrale ricostruzione delle poste di dare ed avere, con l’applicazione del tasso legale.

La prova del saldo alla chiusura del conto, come tale inclusivo di capitali ed interessi, non consente di pervenire allo stesso livello di prova. Tale saldo infatti non solo non consente di conoscere quali addebiti, nell’ultimo periodo di capitalizzazione, siano dovuti ad operazioni passive per il cliente e quali alla capitalizzazione degli interessi, ma a sua volta discende da una base di computo che è il risultato di precedenti capitalizzazioni degli interessi. La produzione incompleta degli estratti conto, a maggior ragione se viene accertata una non consentita capitalizzazione degli interessi da parte dell’istituto di credito, non consente di avere a riferimento il saldo debitore di apertura del primo degli estratti conto prodotti, proprio perché in esso confluiscono interessi che in realtà non vanno contabilizzati poiché applicati in violazione di legge.

Si tratta di un principio ormai consolidato, rinvenibile da ultimo in Cass. 20.1.2017 n. 1584 e, andando più a ritroso, in Cass. 9.8.2016 n. 16829, Cass. 20.4.2016 n. 7972, Cass. 18.9.2014 n. 19696, Cass. 26.1.2011 n. 1842, Cass. 25.11.2010 n. 23974, Cass. 10.5.2007, n. 10692.

Pertanto la VI Sezione così conclude: nei rapporti bancari in conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità della pattuizione relativa agli interessi a carico del correntista, la banca ha l’onere di produrre gli estratti a partire dall’apertura del conto, né essa banca può sottrarsi all’assolvimento di tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perché non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito. Ed infine, una volta accertata la pattuizione di interessi non dovuti, il giudice di merito non può ritenere che la disposizione contrattuale non abbia trovato applicazione nel periodo non documentato negli estratti conto, salvo che la banca non alleghi e non provi il fatto modificativo o estintivo che determini la caducazione, totale o parziale, della disposizione stessa, o comunque la sopravvenuta sua inettitudine a regolamentare il rapporto in conformità di quanto in essa prescritto.

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La Cassazione sulla definizione di “termini d’uso” nella revocatoria fallimentare (Nota a Cass. I Civ., n. 25162/2016)

La Cassazione sulla definizione di “termini d’uso” nella revocatoria fallimentare (Nota a Cass. I Civ., n. 25162/2016)

Con la sentenza n. 25162 del 7.12.2016, la Prima Sezione della Corte di cassazione ha disciplinato l’applicazione della norma contenuta all’art. 67, co. 3, lett. a) della Legge Fallimentare, che esime dall’azione revocatoria fallimentare quei pagamenti di beni e servizi eseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa nei “termini d’uso”.

La Riforma del 2005 ha significativamente ristretto il ventaglio di ipotesi in cui poter instaurare revocatorie fallimentari, sia attraverso la riduzione del c.d. “periodo sospetto”, sia attraverso la previsione di varie esenzioni, una delle quali è qui in esame. Si tratta di strumenti attraverso cui il Legislatore ha inteso affrontare in maniera differente rispetto al passato le problematiche relative alla crisi d’impresa, in modo da favorire la conservazione dell’attività o, quanto meno, la gestione della crisi attraverso accordi coi creditori, con lo scopo espresso di agevolare la continuazione dell’impresa che si trovi in stato di crisi[1]. Il loro proficuo utilizzo può consentire di scongiurare l’interruzione in massa dei rapporti commerciali, di garantire un margine residuo di operatività dell’impresa, di non disperdere il valore di funzionamento dell’azienda e di non recidere processi di recupero della crisi in atto.

A fronte dell’intenzione espressa del Legislatore di valorizzare il bene della salvaguardia delle imprese versanti in stato di crisi, un sistema revocatorio ancora rigido – come era quello pre-riforma – rappresentava una grande contraddizione ed esponeva al rischio di vanificare ogni sforzo, poiché l’impresa restava soggetta al rischio di caducazione degli atti compiuti nella fase precedente alla dichiarazione di fallimento, anche ove inseriti in una fase di recupero e conservazione dell’attività.

Dall’altro lato del rapporto, scopo dell’esenzione è di “rassicurare i fornitori dell’imprenditore insolvente della stabilità di transazioni commerciali riconducibili ai normali rapporti di fornitura”[2].

Come si legge in Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, la ratio ispiratrice della norma è da individuarsi sia nell’esigenza di preservare la continuità dell’attività aziendale per garantire la conservazione dell’impresa in crisi in vista di un suo recupero, evitando che i fornitori, che vengono a conoscenza dello stato di difficoltà di quest’ultima, nel timore di una futura revoca dei pagamenti ricevuti, interrompano i rapporti, così impedendo la prosecuzione dell’attività, sia nell’esigenza di tutelare i terzi quando la normalità del rapporto lascia presupporre una mancanza di conoscenza in capo a questi ultimi dello stato di insolvenza. Analogamente, in precedenza, Trib. Bergamo, Sez. II, 14.11.2012, n. 2846, aveva affermato che la ratio della disposizione è tesa, da un lato, ad evitare che il manifestarsi della crisi induca i fornitori di beni necessari all’esercizio dell’ordinaria attività aziendale dell’imprenditore in crisi a sospendere i rapporti commerciali funzionali alla prosecuzione dell’impresa, in modo da aggravarne ulteriormente la crisi e, dall’altro, a tutelare l’accipiens, garantendo il consolidamento di pagamenti che, in quanto ricevuti nello svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e nei termini d’uso, sono sotto il profilo oggettivo tali da non far sorgere sospetto alcuno in merito alla solvibilità del debitore. Alcuni Giudici hanno però tentato di minimizzare la portata delle esimenti qualificando lo stato temporaneo di crisi dell’imprenditore come “eventuali momenti transeunti di mera difficoltà percepibili come tali” (Trib. Monza, 24.4.2012; Trib. Milano, 3.5.2012; Trib. Salerno, 30.1.2015).

La funzione cruciale ricoperta da questa disposizione rende necessario una analisi ermeneutica mirata a chiarire cosa debba intendersi per “termini d’uso”.

Se la prima parte della norma è chiara ed esaustiva (nel senso che si specifica che il pagamento esonerato è solo quello riconducibile ad una transazione commerciale conclusa in ragione dell’esercizio dell’attività di impresa), dubbi sono sorti in ordine all’interpretazione da darsi alla locuzione “termini d’uso”, oggetto di ampie discussioni in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Occorre dunque fornire la corretta definizione di “termini d’uso”, indagando le intenzioni del Legislatore: la questione, anche se solo esegetica, presenta profili di problematicità determinati dalla circostanza che ogni diversa opzione di scelta può spiegare conseguenze rilevanti nei confronti dei singoli operatori economici.

I precedenti in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Nel predetto lavoro di esegesi, una parte della dottrina ha inteso valorizzare l’elemento cronologico, ritenendo di dover sottrarre dall’azione revocatoria fallimentare quei pagamenti eseguiti entro un determinato periodo, rinvenendo dunque nel tempo dell’adempimento un elemento indiziario della “normalità del pagamento”[3]. Secondo altri interpreti la locuzione “termini d’uso” dovrebbe riferirsi alla “normalità delle modalità di effettuazione del pagamento” più che alla sua puntualità o alla sua collocazione cronologica[4]. V’è stato poi chi ha rimesso la valutazione sulla normalità del pagamento ad una analisi complessiva, confrontando le modalità dell’adempimento con il tempo[5]. Non può ignorarsi l’opinione di chi non ha ritenuto doversi procedere ad una determinazione aprioristica dei menzionati parametri, ritenendo che l’espressione in oggetto dovesse fungere da clausola generale attraverso cui il Legislatore si era rimesso ad una valutazione sociale tipica, pertanto rendendosi necessaria una analisi caso per caso da parte dell’interprete[6]. In dottrina non erano quindi univoche le risposte alla domanda se per “termini d’uso” occorresse far riferimento alle pratiche generali di mercato oppure ai singoli rapporti intercorrenti tra le parti, né se la locuzione fosse collegabile al solo tempus della prestazione, o alle sue modalità concrete o ad entrambi.

Nella Giurisprudenza ha invece prevalso la soluzione che preferiva dare efficacia dirimente alle soluzioni concretamente attuate dalle parti contraenti piuttosto che alle condizioni generali presenti nel mercato di riferimento.

In maggioranza i Tribunali hanno ritenuto di dover valorizzare sia le modalità di pagamento, sia il tempus, ad iniziare da Trib. Torino, Sez. VI, 23.4.2009, che ha concisamente riferito l’espressione “termini d’uso” al tempo e alle modalità di pagamento “utilizzati abitualmente fra i contraenti nell’esercizio normale dell’attività di impresa”.

Trib. Milano, Sez. II, 16.1.2012, n. 447, ha evidenziato che il senso della previsione di cui all’art. 67, co. 3, lett. a), L. Fall., è comprensivo sia della qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico e ordinario, sia del dato cronologico, ossia del tempo dell’adempimento (il caso era quello di una girata di assegni emessi da clienti della società poi fallita, che costituiva forma diversa da quella fisiologica). Trib. Milano, Sez. II, 3.5.2012, n. 5115, ha rimarcato la necessità che “il pagamento sia effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti, con l’ulteriore conseguenza che solo i pagamenti ritardati rispetto a quanto dalle parti concordato finirebbero per ricadere nell’area degli atti solutori revocabili”. Analogamente, qualche tempo dopo, Trib. Milano, 24.12.2012, ha affermato che la locuzione “nei termini d’uso” deve essere intesa sotto un duplice profilo concernente sia il tempo, sia le modalità del pagamento, imponendo essa di attenersi al criterio della regolarità dell’adempimento ed implicando la contestualità e/o la normalità dello scambio: ne conseguiva che dovevano ritenersi esenti da revocatoria i pagamenti avvenuti regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale, mentre non potevano beneficiare dell’esenzione i pagamenti effettuati in ritardo, a maggior ragione se avvenuti a seguito di solleciti. A tal riguardo, si veda anche Corte App. Milano, Sez. III, 12.10.2015, n. 3886, secondo cui l’esenzione opera sul piano oggettivo, essendo irrilevante lo stato soggettivo dell’accipiens, e la locuzione “termini d’uso” comprende sia la qualità e tipologia del pagamento, che deve risultare eseguito con un mezzo fisiologico ed ordinario, sia il dato cronologico, cioè il tempo del pagamento, con la conseguenza che per l’operatività della causa di esenzione è necessario che il pagamento sia stato effettuato, oltre che con mezzi ordinari, nei tempi previsti dal regolamento negoziale accettato dalle parti.

Per Trib. Monza, Sez. III, 24.4.2012, il concetto di “termini d’uso” fa riferimento alle condizioni di tempo e di modo dei pagamenti normalmente in uso tra i contraenti ed in concreto pattuiti tra le parti, sempre che siano mezzi fisiologici e usuali di pagamento, per cui “non possono divenire termini d’uso prassi patologiche e forme anormali di pagamento non concordate dalle parti all’inizio del rapporto negoziale” (più di recente, Trib. Torino, Sez. I, 2.3.2016, ha integralmente ripreso questa pronuncia).

In maniera non dissimile il Tribunale di Salerno (Sez. III, 18.6.2013, n. 1559; 4.11.2013) ha affermato l’operatività oggettiva (indipendentemente dall’accertamento dell’elemento psicologico) dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, identificabili con “le condizioni abitualmente utilizzate nei rapporti tra fallito ed accipiens”: “pagamenti nei termini d’uso sono quelli eseguiti con un mezzo fisiologico e ordinario ed effettuati nei tempi utilizzati nella concreta pregressa attività commerciale”, cioè “compiuti con lo stesso ritardo precedentemente tollerato dall’accipiens”, gravando sempre sul convenuto (quindi sul fallito) l’onere di provare la sussistenza dell’esimente. Più di recente, lo stesso Tribunale (Sez. III, 30.1.2015, n. 506) ha ricordato che la categoria normativa dei “termini d’uso” postula la riconducibilità del regolamento del rapporto commerciale a clausole e modalità di esecuzione puntuali e sicuramente identificabili nel contenuto.

Per Trib. Roma, Sez. Fall. 10.9.2014, la causa di esenzione postula “l’utilizzo di mezzi solutori ordinari ed il rispetto dei termini di pagamento originariamente convenuti tra le parti, ovvero di quelli che – pur diversi da quanto inizialmente previsto dai contraenti – siano riconducibili ad una convenzione tra di loro instauratasi successivamente in modo tacito o esplicito”. Già precedentemente i giudici capitolini avevano affermato che “deve intendersi eseguito nei termini d’uso quel pagamento che non solo sia avvenuto con mezzi normali ma anche con una tempistica coerente con il regolamento negoziale accettato dalle parti ovvero, in via subordinata usualmente in essere tra le parti e dunque anch’essa caratterizzata da profili di normalità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 21.5.2014, n. 11407; Id., 7.5.2014, nn. 10103 e 10102) o anche che per “termini d’uso” si deve fare riferimento “alle condizioni di tempo e al modo con cui i pagamenti sono stati effettuati, condizioni che siano state pattuite dalle parti o che rappresentino le modalità normali in uso tra le stesse: non possono ritenersi effettuati nei termini d’uso quegli adempimenti frutto di prassi patologiche ed anomale che non siano state concordate tra le parti all’origine del rapporto contrattuale” (Trib. Roma, Sez. Fall., 28.1.2014, n. 2085), nonostante altrove si fosse fatto esclusivo riferimento a operazioni di pagamento rientranti “nelle normali relazioni commerciali intrattenute tra le parti” che non presentavano “profili di anormalità e atipicità” (Trib. Roma, Sez. Fall., 11.3.2014, n. 5731) o a “pagamenti effettuati regolarmente alla loro scadenza in relazione alla prassi commerciale tra le parti” (Trib. Roma, Sez. Fall., 24.1.2014, n. 1821).

La decisione della Cassazione.

La questione giunta all’esame della Prima Civile, nei precedenti gradi di giudizio aveva avuto due differenti soluzioni. In primo grado il Tribunale ha inteso i “termini d’uso” come quelli correnti tra le parti al momento dell’atto solutorio, nell’ambito delle ordinarie attività dell’impresa operante in un determinato settore e ritenendo sussistente tra le parti l’uso, conforme alla prassi del settore, dei pagamenti in contanti della merce acquistata al dettaglio. Differentemente dai giudici di primo grado, la Corte d’Appello ha invece inteso i “termini d’suo” nel riferimento alle “abitudini del singolo imprenditore e non in base alle consuetudini generali relative a determinate tipologie contrattuali”.

Per la Cassazione “la dizione normativa non è particolarmente chiara, mentre lo è la ratio della norma, intesa a favorire la conservazione dell’impresa nell’ottica dell’uscita dalla crisi, mentre la precedente disciplina della revocatoria era ritenuta di serio ostacolo alle prospettive di risanamento dell’impresa”.

La norma riferisce i termini non alle prestazioni, ma necessariamente ai pagamenti effettuati.

La soluzione “più appagante” per i Giudici di Legittimità è quella che privilegia “il rapporto diretto tra le parti”, dando rilievo al mutamento dei termini “da intendersi non solo come tempi, ma anche come le complessive modalità di pagamento”. Vengono dunque in rilievo i singoli rapporti tra le parti perché, se invece dovesse riconoscersi valenza dirimente alle prassi del settore economico di riferimento, secondo la Cassazione, si finirebbe per equiparare la fattispecie in esame a quella di cui al co.1, n. 2, del medesimo art. 67 L. Fall. in materia di pagamenti anormali.

È stato conclusivamente affermato il principio per cui “il riferimento della L. Fall., art. 67, co. 3, lett. a), ai “termini d’uso”, ai fini dell’esenzione della revocatoria fallimentare per i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, attiene alle modalità di pagamento proprie del rapporto tra le parti e non già alla prassi del settore economico in questione”. Dal coordinamento tra le pronunce di merito più rilevanti e il principio di diritto espresso nella recentissima sentenza n. 25162/2016, può ben rilevarsi come esenti da azione revocatoria fallimentare siano tutti quei pagamenti eseguiti in modo aderente rispetto alle regole di un determinato rapporto contrattuale, sia con riferimento ai tempi dell’adempimento (pagamento), sia con riferimento alle sue concrete modalità.

[1] Cavalli, L’esenzione dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti eseguiti nei termini d’uso, in Fallimento, 2010; Id., L’esenzione dei pagamenti eseguiti nell’esercizio dell’impresa nei termini d’uso, in Fallimento, 2007; Zorzi, Riflessioni sull’esenzione da revocatoria ex art. 67, comma 3°, lett. a), L. Fall., alla luce dell’introduzione del concordato “in bianco”, in www.ilcaso.it; Meoli, Vecchie e nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2006, 1;  Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Cedam, 2006; Pecoraro, Quando i termini diventano d’uso ai fini dell’esenzione dalla revocatoria fallimentare, in Giurisprudenza Commerciale, 2015, 2.

[2] Percoraro, cit. nota 1.

[3] Per una rapida summa delle diverse opinioni emerse al riguardo: Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) della revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fallimento, 2005; Rago, cit. nota 1; Plenteda, Commento all’art. 67, co. 3, lett. a) c), f) g), in Trattato delle procedure concorsuali. 2 Le azioni revocatorie. I rapporti preesistenti, diretto da Ghia e Piccininni-Severini, Utet, 2010; Terranova, La nuova disciplina delle revocatorie fallimentari, in Diritto Fallimentare, 2006, I; Angiolini, La nuova revocatoria fallimentare, in Rivista Notariato, 2005.

[4] Bonfatti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in AA.VV., Le Riforme sulla Legge Fallimentare, Utet, 2009; Id., Atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie, in AA.VV., Fallimento ed altre procedure concorsuali, Utet, 2009.

[5] Porzio, Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Trattato di Diritto Fallimentare. Gli organi, gli effetti, la disciplina penalistica, Cedam, 2010.

[6] Giorgi, Le esenzioni dalla revocatoria fallimentare per favorire la normale prosecuzione dell’impresa (art. 67, comma 3, lettere a ed f, legge fallimentare), in Diritto Fallimentare, 2008.

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Il negozio viziato da annullabilità assoluta non può essere convalidato (Nota a Cass. II Civ., 20.6.2017, n. 15268)

Il negozio viziato da annullabilità assoluta non può essere convalidato (Nota a Cass. II Civ., 20.6.2017, n. 15268)

La sentenza in esame disciplina il caso di un contratto di trasferimento di un terreno oggetto di assegnazione fondiaria che era stato dichiarato nullo dai giudici di merito poiché attuato in violazione di quanto disposto dalla legge n. 379/1967: ad esso, infatti, si era dato corso prima della scadenza del vincolo trentennale di legge, in mancanza dell’autorizzazione dell’ente che aveva proceduto all’assegnazione ed infine in favore di un soggetto privo della qualifica di coltivatore diretto.

Mentre in primo grado la questione non era stata trattata, poiché assorbita dalla soluzione di altre domande, i giudici di appello hanno ritenuto di dover affrontare il tema della sorte degli atti compiuti in forza di negozi invalidi. La sentenza di secondo grado aveva qualificato tali atti “in frode alla legge”, poiché elusivi delle previsioni normative, con la conseguenza che essi dovevano ritenersi “del tutto invalidi” attesa la loro “radicale nullità”, senza alcuna possibilità di sanatoria (che era stata dalla parte invano ricercata nel venir meno del vincolo di inalienabilità del fondo allo spirare del trentesimo anno).

Per la Cassazione, la fattispecie di invalidità prevista dal Legislatore configura una ipotesi di annullabilità assoluta, essendo l’iniziativa finalizzata alla sua declaratoria rimessa oltre che alle parti, all’ente che ha proceduto all’assegnazione e a chiunque vi abbia interesse, e ciò anche in considerazione del fatto che l’interesse perseguito dalla norma e a tutela del quale la sanzione è prevista va ben al di là delle sfere giuridiche individuali dei contraenti.

Nullità ed annullabilità sono le due ipotesi di invalidità negoziale disciplinate dal nostro Codice cui si ricollegano discipline, finalità e conseguenze differenti fra loro.

La nullità, che comporta la assoluta inefficacia del negozio in quanto viziato sotto il profilo strutturale, tutelando interessi “superindividuali”, può essere invocata non solo da qualsiasi soggetto interessato, ma anche dal giudice che sia stato chiamato a decidere su questioni e circostanze che presuppongono la validità di un contratto.

Si ha invece annullabilità quando un contratto, pur non affetto da patologie strutturali, presenta vizi diversi sotto il profilo della volontà (errore, dolo, violenza) o della capacità. In questo caso, essendo tutelati interessi personali ed individuali, è lasciata all’iniziativa delle parti l’eliminazione degli effetti del negozio non valido.

Nel caso in analisi la Cassazione riprende la nozione di “annullabilità assoluta” che, rispetto al genere “tradizionale”, copre una gamma più ampia di interessi da tutelare e, conseguentemente, si differenzia anche sotto il profilo della vastità della platea di soggetti da cui può essere invocata.

Per opinione comune, la “rilevanza privatistica” della disposizione contenuta all’art. 1441 cod. civ. risulta affievolita, poiché a farne uso non sono soltanto coloro i quali sono portatori di interessi personali ed individuali connessi ad un determinato negozio giuridico (le parti), ma anche altri soggetti che si vedono riconosciuti interessi, facoltà, poteri o veri e propri doveri di tutela di ciò che è contenuto nella legge (ad esempio, come nel caso di specie, da una disposizione normativa). E non a caso taluni interpreti, con riferimento al concetto di “annullabilità assoluta”, hanno parlato della possibilità di agire da parte di chi, soggetto ulteriore rispetto alle parti di un determinato rapporto, può dirsi comunque titolare di un interesse ad agire in base alle norme processuali.

Per ciò che qui ci riguarda, l’annullabilità di ogni atto violativo dell’art. 4 della legge n. 379/1967 è posta a salvaguardia non solo degli interessi particolari dei singoli, ma anche di interessi di carattere superiore, come ben espresso in altro e più risalente precedente: “scopo della legge è quello di assicurare che il fondo non sia in alcun modo sottratto alla sua specifica destinazione, che è quella della coltivazione e del miglioramento produttivo, mediante lo svolgimento dell’attività lavorativa personale e diretta dell’assegnatario, scelto dall’ente in esito ad un procedimento amministrativo tra soggetti in possesso di determinati requisiti” (Cass. III Civ., 16.3.1985, n. 2022).

Secondo Cass. I Civ., 24.8.1993, n. 8918, “mentre l’annullabilità relativa è disposta a tutela dell’interesse privato, ossia del soggetto che sarebbe danneggiato dal negozio, sicché l’annullabilità si concreta in una misura posta essenzialmente a difesa del soggetto incapace ed opera al fine di evitare che l’altro contraente tragga vantaggio dallo stato di incapacità non fatto valere dall’interessato, l'”annullabilità-sanzione” tutela l’interesse generale con la conseguenza che chiunque può farla valere”.

Il negozio affetto da annullabilità (“relativa”) è dotato di efficacia provvisoria, che può essere resa stabile per mezzo di convalida (avente l’effetto sostanziale della rinuncia all’azione di annullamento), in quanto modalità di espressione dell’autonomia contrattuale delle parti. Ciò invece non può verificarsi nell’ipotesi in cui un negozio sia affetto da annullabilità assoluta poiché, come conclude Cass. II Civ., 20.6.2017, n. 15268 (ma precedentemente anche Cass. II Civ., 25.6.2012, n. 10577), “laddove si verta in un’ipotesi di annullabilità assoluta, così come evidenziato dalla più accorta dottrina, la convalida risulta impedita, non solo e non tanto per la necessità che la convalida sia attuata da tutti i soggetti investiti della legittimazione a far valere l’annullabilità, ma altresì in ragione della finalità della sanzione che è posta a tutela di interessi di natura diversa da quelli dei soli contraenti, essendo quindi preclusa la possibilità di valutare la conformità dell’assetto programmato al proprio interesse reale, in funzione del quale è appunto conferito il potere di convalida”.

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