Le clausole compromissorie negli statuti delle società cooperative edilizie (Nota a Cass. VI Civ., 13.6.2016, n. 12124).

Le clausole compromissorie negli statuti delle società cooperative edilizie (Nota a Cass. VI Civ., 13.6.2016, n. 12124).

Periodicamente la Cassazione torna sul tema del raggio d’azione delle clausole compromissorie inserite negli Statuti delle società cooperative edilizie. La recente ordinanza della VI Sezione Civile (n. 12124 del 13.6.2016), nella sua brevità, pur confermando un orientamento ormai stabile, offre alcuni importanti spunti di riflessione.

La vicenda.

Una ex socia di una cooperativa edilizia proponeva opposizione all’esecuzione immobiliare dalla società intrapresa in suo danno per l’omesso pagamento del saldo del prezzo d’acquisto dell’immobile assegnato e trasferitole in proprietà.

L’opposizione (proposta dopo la sua esclusione) fondava sulla sostenuta non debenza degli importi pretesi dalla cooperativa, avendo l’immobile una superficie abitabile inferiore a quella originariamente pattuita. Nel successivo giudizio di merito era stata anche avanzata una domanda riconvenzionale di riduzione del prezzo.

Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 500/2015, declinava la propria competenza a decidere la controversia ritenendo competente, in virtù dell’art. 39 dello statuto societario, il collegio arbitrale.

Impugnata la decisione con regolamento di competenza, veniva dunque riproposta dinanzi alla Cassazione la questione dei limiti all’applicabilità di una clausola compromissoria inserita in uno statuto di una società cooperativa edilizia.

La decisione.

La VI Sezione, nel solco tracciato da precedenti decisioni, ha accolto il regolamento di competenza proposto dall’ex socia e rinviato gli atti al Tribunale di Firenze.

Riferiscono i Giudici di Legittimità: “l’art. 39 dello statuto societario, posto dal tribunale a fondamento della sentenza declinatoria della propria competenza, deve riferirsi, per il tenore testuale della clausola, e per la ratio sottesa, ai soli rapporti societari nascenti dal contratto sociale, e quindi ai rapporti c.d. endosocietari”, mentre nel caso di specie la socia era stata esclusa con provvedimento (non impugnato) precedente alla proposizione dell’opposizione, che aveva ad oggetto “il puntuale adempimento o meno da parte della cooperativa venditrice, delle obbligazioni derivanti dall’atto di trasferimento in proprietà dell’immobile, e quindi a rapporti che non sono qualificabili endosocietari”.

Espresso è stato il richiamo a Cass. VI Civ. n. 723/2013, “in cui si chiarisce che il socio di società cooperativa è parte di due distinti anche se collegati rapporti, uno di carattere associativo derivante dall’adesione al contratto sociale e l’altro che deriva dal contratto bilaterale di scambio, e che l’acquisto della proprietà dell’alloggio da parte dei soci, per la cui realizzazione l’ente è stato costituito, passa attraverso la conclusione di un contratto di scambio la cui causa è del tutto omogenea a quella della compravendita, in relazione alla quale la cooperativa assume la veste dell’alienante e il socio la veste dell’acquirente”.

Per concludere, “la presenza di una clausola compromissoria nel solo statuto della cooperativa non è idonea a radicare la competenza arbitrale per quelle cause tra la cooperativa e soggetti che siano stati suoi soci che non traggono origine da rapporti endosocietari e che attengano solo al trasferimento in proprietà dell’immobile costruito dalla cooperativa, dovendosi ritenere necessario a questo scopo o una espressa previsione dell’applicabilità della clausola statutaria anche ai rapporti di assegnazione e trasferimento in proprietà degli immobili, o l’inserimento di un’autonoma clausola nell’atto di prenotazione o nel successivo atto di assegnazione o nell’atto di trasferimento”.

Alcune riflessioni suggerite dall’ordinanza in commento.

Sotto un profilo meramente statistico, deve rilevare come da più parti si confondano ancora funzioni e finalità dei diversi atti che legano una cooperativa edilizia ai soci. A tanto non può che collegarsi l’auspicio che i vari spunti offerti da questo nuovo contributo possano rendere ancora più chiara la materia.

Il primo dei temi toccati è quello dei limiti (soggettivi) dello statuto societario, vale a dire dei limiti alla sua applicabilità una volta che sia venuto meno il vincolo sociale.

Al riguardo, può sostenersi che l’esclusione – non impugnata – del socio, comporti la risoluzione del rapporto sociale ed il venir meno dell’applicabilità delle disposizioni interne al sodalizio. Le disposizioni societarie trovano un limite sia soggettivo, sia oggettivo, nella cessazione del rapporto, attesa la nuova qualità di “terzo” assunta dal socio escluso: quindi nell’ipotesi di fatti e diritti successivi all’uscita del socio, poiché lo coinvolgono uti tertius, non può trovare applicazione la clausola compromissoria prevista nello statuto [[1]].

Nel prosieguo, la distinzione tra conferimenti sociali ed esborsi di carattere straordinario (necessari per la realizzazione degli alloggi) [[2]], appare funzionale al richiamo a Cass. n. 723/2013 e al principio ivi espresso, secondo cui “nelle cooperative edilizie che hanno per oggetto sociale la costruzione di alloggi da assegnare ai soci, le anticipazioni e gli esborsi sopportati dal socio per conseguire la proprietà dell’alloggio trovano giustificazione in un rapporto di scambio, ben distinto dal rapporto associativo, dal quale trae invece origine l’obbligo dei conferimenti e della contribuzione alle spese comuni di organizzazione ed amministrazione, ricollegandosi questi ultimi alla qualità di socio, che deriva dall’adesione alla cooperativa e permane fino a suo scioglimento ovvero al recesso o all’esclusione del socio, ed i primi ad un atto di trasferimento avente una causa omogenea a quella di una comune compravendita, nell’ambito del quale la società assume la veste di alienante e il socio quella di acquirente” [[3]].

La regolamentazione del rapporto di scambio, in coerenza con la sua natura, è da ricercare nella sua specifica fonte contrattuale e nei principi propri del contratto sinallagmatico di compravendita, dovendosi aver riguardo alla disciplina societaria solo nella misura in cui essa sia stata in quel contratto espressamente o implicitamente richiamata [[4]]. Ogni diversa impostazione si porrebbe in conflitto con le disposizioni in materia di ermeneutica soggettiva della volontà negoziale (art. 1362 c.c.).

Ma questo è soltanto il punto di approdo. Tra i punti di partenza c’è stato certamente il riconoscimento della “autonomia” di “causa giuridica” del rapporto associativo in una società cooperativa edilizia rispetto al rapporto di scambio finalizzato all’acquisto di un immobile (cfr. Cass. n. 15550/2000, cui seguirono Cass. n. 9393/2004, Cass. n. 2612/2007, Cass. n. 13641/2013) [[5]] e la constatazione che gli esborsi e le anticipazioni di carattere straordinario ai fini dell’acquisto del terreno, della realizzazione degli alloggi, etc., non sono strettamente inerenti al rapporto sociale e sono destinati a gravare sul socio subentrante, ponendo il socio nella posizione di creditore nei confronti della Cooperativa Edilizia, posizione che si manifesta come diritto alla restituzione delle somme anticipate, non sottoposto alla disciplina legislativa relativa alla quota sociale (Cass. n. 6197/2008; Cass. n. 9393/2004, in Giust. Civ. Mass. 2004 e DeG 2004).

L’ultimo assunto circa la necessità di una “espressa previsione dell’applicabilità della clausola statutaria anche ai rapporti di assegnazione e trasferimento in proprietà degli immobili, o l’inserimento di un’autonoma clausola nell’atto di prenotazione o nel successivo atto di assegnazione o nell’atto di trasferimento”, ispirato dalla sentenza n. 723/2013 (che aveva regolato invece una situazione in cui erano presenti due clausole compromissorie: una nello statuto e l’altra nell’atto di assegnazione), offre lo spunto per la conclusiva riflessione sulla disciplina dei collegamenti contrattuali e le relative ripercussioni sotto il profilo della giurisdizione.

Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite (n. 13894 del 14.6.2007) a sancire che “il collegamento contrattuale non attiene ai profili processuali, ma sostanziali del regolamento contrattuale, con la conseguenza che i suoi effetti non si estendono alla giurisdizione, che trovi disciplina nella clausola di uno dei contratti collegati. Il patto di proroga della giurisdizione, che accede ad un contratto, non trova applicazione rispetto al contratto collegato e non determina lo spostamento della competenza giurisdizionale”. Con specifico riferimento alla materia societaria, Cass. n. 7501/2014 ha escluso che, tramite la clausola compromissoria contenuta in un determinato contratto, la deroga alla giurisdizione del giudice ordinario e il deferimento agli arbitri possano estendersi a controversie relative ad altri contratti, ancorché collegati al contratto principale, cui accede la predetta clausola, senza che essa sia in alcun modo richiamata, affermando che la clausola compromissoria contenuta nel contratto sociale deve essere interpretata, in mancanza di volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le controversie inerenti al rapporto societario e relative a pretese aventi la loro causa petendi nel medesimo contratto sociale, ove lo stesso non rappresenti un mero presupposto storico sul quale si innesta il diritto rivendicato (Cfr. anche Cass. n. 2598/2006) [[6]]. Cass. n. 1674/2012 ha sottolineato che la clausola compromissoria riferita genericamente alle controversie nascenti dal contratto cui essa inerisce, va interpretata, in mancanza di espressa volontà contraria, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi causa petendi nel contratto medesimo, con esclusione quindi delle controversie che in quel contratto hanno unicamente un presupposto storico.

Può apparire strano che una decisione così breve abbia consentito un approfondimento su tre aspetti complessi e diversi, seppur connessi tra loro. Una simile attività è certamente facilitata nelle ipotesi in cui, pur esaminando decisioni disciplinanti profili differenti, la Cassazione utilizza in maniera coerente i principi precedentemente enunciati, onorando in pieno il suo ruolo “ordinatore” e nomofilattico.

[1] Cfr. Cass. n. 6052/1978; Cass. n. 1213/1980; Trib. Milano, 26.7.1999. In dottrina, cfr. Nela, sub art. 34, ne Il nuovo processo societario (a cura di Chiarloni), 2004. In Cass. n. 12077/1990 si legge di compromissione in arbitri che accede ad un contratto di società e che individua nella qualità di soci della stessa Società gli “estremi soggettivi” della controversia sottratta all’Autorità Giudiziaria Ordinaria, ed ancora che “ciò che viene in gioco è proprio quella qualifica soggettiva prevista dalla clausola compromissoria, come situazione atta a devolvere agli arbitri il giudizio … purché la lite coinvolga i soci, e solo i soci”. Sul punto si segnala il contributo di altra, autorevole, dottrina: Montesano – Arieta nel loro Trattato di Diritto Processuale Civile (Vol. 2, Tomo 2, Cap. 1171), sostengono che il patto compromissorio “può venire meno (…) per il venire meno del contratto nel quale era contenuta la relativa clausola (…). Se le parti, nell’ambito della loro autonomia sottoscrivono patti novativi o risolutivi del contratto nel quale era inserito il patto commissorio, ciò comporta, ci sembra, la sopravvenuta estinzione di quest’ultimo in relazione a tutte le controversie che dovessero insorgere tra le stesse per fatti successivi all’intervenuta novazione o risoluzione” ed ancora che “resta esclusa dalla competenza arbitrale (Cass. 25.8.1998, n. 8410), ogni pretesa occasionata da un rapporto contrattuale ormai esaurito, in quanto le parti, rimettendo agli arbitri le possibili controversie in tema di interpretazione e di esecuzione di un contratto, hanno riguardo solo a quelle legate da rapporto di causalità giuridica rispetto ad esso”.

[2] Vd. infra.

[3] Oltre alla riportata Cass. n. 723/2013, cfr. Cass. 9393/2004, Cass. 6016/2003, Cass. 15550/2000.

[4] Cfr. Cass. 19080/2012 (richiamata da Cass. 17465/2014), Cass. 7646/2007, Cass. 6016/2003.

[5] Secondo Cass. n. 13641/2013 (da ultimo) in tema di cooperative edilizie deve distinguersi tra il rapporto sociale-associativo e quello di scambio, di natura sinallagmatica, rapporti che, pur collegati, hanno causa giuridica autonoma. Ne deriva che il pagamento di una somma, eseguito dal socio a titolo di prenotazione dell’immobile, deve essere ascritto al rapporto di scambio e perciò al pagamento del prezzo di acquisto, alla cui restituzione la cooperativa è tenuta in caso di scioglimento del rapporto sociale. Sempre con riferimento all’aspetto patrimoniale, Cass. n. 2612/2007 ricorda che occorre distinguere tra somme versate dal socio a titolo di spese generali, necessarie per l’amministrazione e l’organizzazione della Cooperativa in quanto tale (“obbligo correlato alla qualità di socio”, secondo Cass. n. 15550/2000) e somme versate in funzione dell’assegnazione dell’alloggio, che non sono strettamente inerenti il rapporto sociale. La distinzione dei due rapporti è netta in Cass. n. 5014/2013, secondo cui il socio di società cooperativa edilizia “in qualità di beneficiario del servizio mutualistico reso dalla società, è parte non solo di un rapporto di carattere associativo, derivante dall’adesione al contratto sociale e dalla conseguente acquisizione della qualità di socio, ma anche di un altro rapporto, per lo più di natura sinallagmatica, derivante dal contratto bilaterale di scambio per effetto del quale egli si appropria del bene o del servizio resogli dall’ente”.

[6] Principi espressi anche da Cass. SS.UU. n. 7398/1998, nonché da Cass. 5371/2001.

Il funzionamento della compensazione in un recente contrasto giurisprudenziale.

Il funzionamento della compensazione in un recente contrasto giurisprudenziale.

Per i rapporti giuridici caratterizzati dalla coesistenza di reciproche obbligazioni, il nostro Ordinamento ha previsto una modalità satisfattiva di estinzione (“per le quantità corrispondenti”, art. 1241 c.c.) che si realizza attraverso la loro (vicendevole) compensazione. Per molti autorevoli interpreti, la compensazione rappresenta non solo una modalità di estinzione del debito, ma anche una modalità di realizzazione del credito.

L’art. 1243 c.c. individua due tipi di “compensazione” (“legale” e “giudiziale”), identiche per gli effetti conseguiti ma differenti nei presupposti.

In attesa che le Sezioni Unite Civili si pronuncino sulla questione demandata dalla Sezione III con ordinanza n. 18001 dell’11.9.2015 circa la opponibilità in compensazione di un credito fondato su sentenza non ancora passata in giudicato, sono da segnalare due pronunzie (nn. 13244 e 13279) con cui la Cassazione ha recentemente trattato taluni aspetti dell’istituto.

Nella sentenza n. 13244 viene affrontato il caso di un Condominio che aveva impugnato il precetto notificatogli da una Società opponendo in compensazione un contro-credito derivante da un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo (che era stato addotto in compensazione dal Condominio anche in altro giudizio). Il Giudice di primo grado accoglieva l’opposizione, rilevando che medio tempore il decreto ingiuntivo era divenuto definitivo a causa di declaratoria di improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo e ritenendo irrilevante la circostanza che il contro-credito fosse stato addotto in compensazione in altra sede. La Corte d’Appello ribaltava il primo verdetto: poiché la compensazione è un mezzo di estinzione delle obbligazioni, essa necessita il definitivo e incontestabile accertamento su entrambe le obbligazioni da estinguere; pertanto poiché il credito vantato dall’opponente (si deve ritenere che, per refuso, la Cassazione abbia utilizzato la parola “appellante”) anche se consacrato in un titolo provvisoriamente esecutivo, era ancora sub iudice, doveva ritenersi controverso e suscettibile di accertamento negativo o modificazioni quantitative, da ciò discendendo il difetto del requisito della certezza e dunque l’impossibilità di addurlo in compensazione.

Nel caso disciplinato dalla sentenza n. 13279, invece, la Cassazione ha affrontato la particolarità della compensabilità tra crediti “comunitari” e crediti “statali” (argomento che meriterebbe autonoma e separata trattazione), in una controversa che vedeva contrapposta l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura ad una impresa agricola.

Nella sentenza n. 13244 la Cassazione ha riformato la decisione di secondo grado partendo dalla affermazione che “la compensazione presuppone che ricorrano i requisiti di cui all’art. 1243 c.c., cioè che si tratti di crediti certi, liquidi ed esigibili (o di pronta e facile liquidazione)”: la compensazione legale, differentemente da quella giudiziale, opera di diritto per effetto della sola coesistenza dei debiti, da ciò derivando che la sentenza che la accerti è meramente dichiarativa di un effetto estintivo già conseguito; ciò che rileva è che l’effetto estintivo sia nella disponibilità della parte (unico soggetto che può eccepire la compensazione, non essendo essa rilevabile d’ufficio) e senza che sia richiesta una “autorizzazione alla compensazione” alla controparte (vd. anche Cass. 22324/2014).

La Corte ha poi precisato che la compensazione legale tuttavia non opera nel caso in cui il credito addotto in compensazione sia contestato nell’esistenza o nell’ammontare, dal momento che la contestazione esclude la liquidità del credito, necessitandosi per legge la contestuale presenza dei requisiti della certezza, liquidità ed esigibilità del credito. A tal riguardo, la pronuncia n.13279/2016 è entrata maggiormente nello specifico, andando a precisare che “la contestazione giudiziale dell’esistenza – così come dell’ammontare – del controcredito ne impedisce la compensazione legale ex art. 1243, co. 1, c.c., essendo sufficiente rilevare in proposito come il requisito della certezza del credito, oltre a quelli della esigibilità e liquidità, sia implicitamente richiesto quale elemento necessario dalla norma dell’art. 1243 c.c., atteso che la contestazione del credito viene a risolversi in ogni caso anche in un difetto del requisito di liquidità” (vd. anche Sez. Un. Civ. n. 2234/1975; Cass. Lav. n. 14818/2002; Cass. III n. 13208/2010)

La compensazione giudiziale (art. 1243, co. 2, cod. civ.), invece, può essere disposta dal Giudice, sempre su eccezione di parte, nel caso in cui il credito opposto in compensazione sia “di facile e pronta liquidazione”.

A differenza della prima (che presuppone la sussistenza – anteriormente al giudizio – di contrapposti crediti certi, liquidi ed esigibili), la compensazione giudiziale presuppone che il credito, pur illiquido (vale a dire, non ancora espresso in misura determinata), sia di facile e pronta liquidazione. In ipotesi simili, dunque, il Giudice dinanzi al quale è sollevata l’eccezione di compensazione, è tenuto ad operare un giudizio ampio, teso all’accertamento dell’an debeatur, che costituisce giudizio di merito insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.

Per questa ragione l’eccezione di compensazione non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio ancora in corso, dal momento che il relativo credito non è liquidabile se non in quella sede (Cass. n. 10055/2004). Il giudice che non riconosca la facile e pronta liquidità del credito opposto in compensazione deve disattendere la relativa eccezione, senza che tanto pregiudichi la possibilità per il convenuto di far valere il proprio asserito credito in altro autonomo giudizio.

Le due sentenze in commento pur avendo svolto un rapido, ma efficace, lavoro di “sistemazione”, palesano la necessità di un intervento risolutore delle Sezioni Unite: difatti, mentre per la Seconda Sezione (sent. n. 13244/2016) “appare connaturale allo stesso istituto della compensazione giudiziale che il credito che si pretende estinguere in tutto o in parte mediante l’istituto de quo sia un credito sub iudice, posto che la valutazione circa i presupposti per l’operatività della fattispecie estintiva è rimessa al giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda di condanna, il che quindi esclude a monte che anche il credito da estinguere debba essere stato accertato con sentenza definitiva”, la Terza Sezione (sent. n. 13279/2016) ha convintamente affermato che “la litigiosità del controcredito è condizione ostativa ad entrambi i tipi di compensazione legale e giudiziale, in quanto il reciproco effetto estintivo presuppone che entrambi i crediti siano effettivamente esistenti, e dunque richiede che nella specie il controcredito sia stato accertato in modo definitivo (mediante accertamento contenuto in sentenza passata in giudicato od in altro provvedimento divenuto definitivo per mancata impugnazione nel termine di decadenza, o per rinuncia volontaria alla contestazione del controcredito), con la conseguenza che la compensazione rimane impedita le volte in cui il credito opposto in compensazione sia stato ritualmente contestato in un separato giudizio, in quanto potrà essere liquidato soltanto in quel giudizio, dovendo ancora precisarsi che, l’eventuale sentenza di merito o provvedimento di condanna, anche se immediatamente esecutivi, emessi in quel giudizio ancora pendente, non consentono di ravvisare il necessario requisito della definitività, e dunque della certezza del controcredito richiesta per operare la compensazione, trattandosi di titoli accertativi del credito pur sempre connotati dalla provvisorietà, in quanto suscettibili di riforma o revoca nel corso dei successivi gradi del giudizio”.

Non resta che attendere l’intervento delle Sezioni Unite per verificare se anche questi aspetti saranno risolutivamente chiariti.

 

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Il collegamento ex lege tra contratto di compravendita e contratto di finanziamento (Nota a Cass. III Civ., 27.9.2016, n. 19000)

Tra un contratto di compravendita ed un contratto di finanziamento necessario ad ottenere risorse economiche utili alla conclusione del primo sussiste un collegamento negoziale ex lege che, in quanto tale, prescinde dall’esistenza o meno di una clausola di esclusiva.

È questo il principio di diritto desumibile da Cass. n. 1900/2016, pronuncia che presenta profili di interesse anche per taluni rilievi fondati sulla normativa europea.

Il caso

L’acquirente di un’autovettura agiva giudizialmente per la risoluzione del contratto di compravendita, non avendo l’impresa venditrice adempiuto alla consegna del bene. Egli agiva altresì nei confronti della banca che aveva erogato il finanziamento per mezzo del quale la vettura era stata acquistata, ai fini della risoluzione di quest’ultimo contratto, sul presupposto dell’esistenza di un collegamento tra i due negozi.

In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda dell’attore nei confronti della venditrice, condannandola al pagamento delle somme corrisposte e da corrispondersi dall’acquirente alla banca, rigettando però la domanda proposta nei confronti di quest’ultima. La decisione veniva confermata in appello.

Inquadramento normativo e ragioni del ricorso per cassazione.

La decisione di secondo grado veniva impugnata con ricorso per cassazione per violazione dell’art. 113 cpc, dell’art. 124, co. 2 e 3, T.U.B. (nella formulazione originaria, applicabile ratione temporis) e dell’art. 1453 cc.

Il ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiarare anche la risoluzione del contratto di finanziamento in virtù del collegamento legale tra contratto di compravendita e contratto di finanziamento, che avrebbe dovuto trovare fondamento nell’art. 124 TUB, applicabile dal Giudice ai sensi dell’art. 113 cpc anche in mancanza di una richiesta attorea, essendo rinvenibili tutti gli elementi fattuali richiesti dalla norma.

L’art. 124, co. 2 e 3, T.U.B. (nella formulazione in vigore sino al 2010, applicabile al caso di specie) elencava i requisiti indispensabili per i contratti di credito al consumo (in particolare, “la descrizione analitica dei beni e dei servizi; b) il prezzo di acquisto in contanti, il prezzo stabilito dal contratto e l’ammontare dell’eventuale acconto; c) le condizioni per il trasferimento del diritto di proprietà, nei casi in cui il passaggio della proprietà non sia immediato”). La nozione di credito al consumo non deve però essere necessariamente confinata al solo atto dell’acquisto di beni o servizi, ma comprende tutte quelle operazioni di concessione, nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altre facilitazioni finanziarie a favore di una persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (per l’appunto, un consumatore).

Nella sentenza di primo grado, confermata in appello, il collegamento tra i due contratti era stato escluso per l’assenza della clausola di esclusiva richiesta dall’art. 42 del Codice del Consumo. Secondo questa disposizione, “nei casi di inadempimento del fornitore di beni e servizi, il consumatore che abbia effettuato inutilmente la costituzione in mora ha diritto di agire contro il finanziatore nei limiti del credito concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore. La responsabilità si estende anche al terzo, al quale il finanziatore abbia ceduto i diritti derivanti dal contratto di concessione del credito”.

A parere del ricorrente per cassazione, i giudici dei due precedenti gradi avevano compiuto un’errata lettura ed applicazione della disposizione, anche alla luce della direttiva comunitaria 87/102/CEE del 22.12.1986 e dell’interpretazione resa dalla C.G.E. con la sentenza del 23.4.2009 nella causa C-509/07.

L’interpretazione della Corte di Giustizia Europea

La direttiva 87/102 istituisce un’armonizzazione minima in materia di credito al consumo, che non esclude che gli Stati Membri possano mantenere o adottare misure più severe per la protezione del consumatore.

In tale ottica si pone anche l’art. 11 della Direttiva che, da una parte, prevede il diritto per il consumatore di procedere contro il creditore in caso di mancata o inesatta esecuzione delle obbligazioni da parte del fornitore e, dall’altra, subordina tale diritto ad una serie di condizioni, tra cui l’esistenza di un rapporto di esclusiva tra fornitore e creditore.

Detta disposizione deve essere però letta alla luce del ventunesimo “considerando” della medesima direttiva che, con riferimento al regime istituito dall’art. 11, prescrive espressamente che “il consumatore, almeno nelle circostanze sotto definite, deve godere, nei confronti del creditore, di diritti che si aggiungono ai suoi normali diritti contrattuali nei riguardi di questo” e che “le circostanze di cui sopra sussistono quando tra il creditore ed il fornitore di beni o servizi esiste un precedente accordo in base al quale il credito è messo da quel creditore a disposizione esclusivamente dei clienti di quel fornitore per consentire al consumatore l’acquisto di merci o di servizi da tale fornitore”.

Da ciò consegue che il diritto di procedere in giudizio di cui all’art. 11, co. 2, Dir. 87/102 costituisce una protezione supplementare offerta al consumatore nei riguardi del creditore, che si aggiunge alle azioni che il consumatore può già esercitare sulla base delle disposizioni nazionali applicabili ad ogni rapporto contrattuale.

Il fine perseguito dalla Direttiva è garantire una tutela minima nei confronti del consumatore, il quale non può esercitare alcuna influenza sul rapporto tra il fornitore e il creditore, circostanza che lo pone in balìa delle condizioni contrattuali sì come negoziate tra questi due imprenditori. Il fatto di subordinare in ogni caso l’esercizio del diritto del consumatore di procedere contro il debitore alla condizione dell’esistenza di una clausola di esclusiva tra il creditore ed il fornitore, si porrebbe in contrasto con l’obiettivo stesso della direttiva 87/102, che è in primo luogo quello di tutelare il consumatore in quanto “parte debole” del contratto.

Conclude la C.G.E. che la possibilità per il consumatore di agire anche nei confronti del creditore per ottenere la risoluzione del contratto di finanziamento e la restituzione delle somme già corrisposte non può essere subordinata alla preesistenza di una clausola di esclusiva.

La decisione della Cassazione

Secondo i Giudici di Legittimità, l’esistenza o meno di una clausola di esclusiva tra fornitore e finanziatore non è presupposto necessario del diritto del consumatore di procedere contro il creditore in caso di inadempimento delle obbligazioni da parte del fornitore al fine di ottenere (anche) la risoluzione del contratto di credito e la conseguente restituzione delle somme corrisposte al finanziatore.

Già precedentemente la Cassazione (n. 20477/2014 e n. 19522/2015), in applicazione degli artt. 121 e 124 T.U.B. (nella loro originaria formulazione), aveva avuto modo di affermare la sussistenza di un collegamento negoziale di fonte legale tra i contratti di credito al consumo finalizzati all’acquisto di determinati beni o servizi e i contratti d’acquisto dei medesimi. E ciò prescindendo dalla presenza di un’esclusiva del finanziatore per la concessione del credito ai clienti dei fornitori. Per tale ragione, veniva demandato al Giudice il compito di individuare quali effetti producesse il collegamento negoziale sussistente per legge tra contratto di finanziamento e contratto di vendita.

In particolare, Cass. n. 20477/2014 aveva affermato che nell’ipotesi in cui un contratto di vendita sia risolto per inadempimento del venditore, il consumatore non è tenuto a pagare il finanziamento attivato. Aveva poi proseguito statuendo che il contratto di credito collegato è quello finalizzato esclusivamente a finanziare la fornitura di un bene o la prestazione di un servizio specifici se ricorre almeno una delle seguenti condizioni: nella prima il finanziatore si avvale del fornitore del bene o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito; nella seconda il bene o il servizio specifici sono esplicitamente individuati nel contratto di credito.

Più in generale, può dirsi che vi è collegamento quando un contratto trova la propria causa nell’altro, risultando dunque essi preordinati all’espletamento di una funzione unitaria. L’elemento di connessione può o essere frutto dell’autonomia negoziale, o discendere da una fonte legale.

Nella decisione in commento, conformemente alle pronunce cui si è testé fatto cenno, la Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello sia caduta in errore nel momento in cui non ha valutato la richiesta di disapplicazione dell’art. 42 cod. cons. (che tutela il consumatore solo in presenza di una clausola di esclusiva), dunque ignorando gli indirizzi espressi dalla Corte di Giustizia, errando altresì nel ritenere non censurata la sentenza di primo grado nella parte in cui rilevava la mancanza della clausola di esclusiva, avendo invece l’appellante chiesto proprio la disapplicazione della relativa norma.

La decisione di secondo grado è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione, la quale dovrà pronunziarsi anche sulla risoluzione del contratto di finanziamento, traendo le conseguenze dell’incidenza sul contratto di finanziamento della già accertata risoluzione del contratto di compravendita, in presenza di un collegamento non più qualificabile come “volontario”, ma legale”.

La regola cui attenersi è quella di presupporre l’esistenza di un collegamento tra contratto di compravendita e contratto di finanziamento, che sussiste ex lege e non in forza dell’esercizio dell’autonomia contrattuale delle parti e che, pertanto, prescinde dalla presenza di una clausola di esclusiva.

La surrogazione dell’assicuratore ex art. 1916 cod. civ. (Nota a Cass. III Civ., 14.10.2016, n. 20740)

Come opera il diritto di surrogazione che l’art. 1916 cod. civ. riconosce all’assicuratore del danneggiato? Qual è la sua estensione? Chi sono i “terzi responsabili” nei confronti dei quali opera la surrogazione? È la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, nella recentissima sentenza n. 20740/2016, a dare una risposta a queste domande.

Il caso.

La vicenda risale ad oltre trent’anni fa, nello specifico ad un incidente avvenuto il 27.9.1983 sulla Autostrada A8 che provocò danni alle strutture autostradali.

La Tirrena Assicurazioni Spa, che assicurava la Società Autostrade contro i danni, indennizzò quest’ultima e successivamente, nel 1986, agì in surrogazione nei confronti dei proprietari dei veicoli coinvolti nel sinistro nonché delle rispettive compagnie assicuratrici per la RC.

Il primo grado si concluse vent’anni dopo. Il Tribunale di Roma accolse la domanda di Tirrena nei confronti dei responsabili civili, ma rigettò quella proposta nei confronti delle rispettive compagnie assicuratrici sull’assunto che essa non potesse surrogarsi nei diritti della propria assicurata nei confronti degli assicuratori per la RC dei responsabili del sinistro, dal momento che l’art. 1916 accorda l’azione di surrogazione solo nei confronti dei “terzi responsabili” del sinistro, tra i quali non rientravano le compagnie assicuratrici dei danneggianti.

La Corte d’Appello capitolina confermò le motivazioni e le conclusioni del giudice di primo grado, aggiungendo il rilievo secondo cui detta conclusione fosse corroborata anche dalla circostanza che, in ipotesi di sinistro imputabile a più persone, il corresponsabile che aveva risarcito la vittima per intero avrebbe avuto diritto di regresso (ex art. 1055 cod. civ.) nei confronti degli altri corresponsabili, ma non nei confronti dei loro assicuratori per la RC.

Inquadramento normativo e ragioni del ricorso per cassazione.

A mente dell’art. 1916 cod. civ., “l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili”. La surrogazione non ha luogo, al di fuori delle ipotesi di dolo, se il danno è causato dai figli, dagli ascendenti, da altri parenti o da affini dell’assicurato stabilmente con lui conviventi o da domestici [1].

La surrogazione dell’assicuratore è dunque una successione a titolo particolare di questi nella posizione giuridica (di credito risarcitorio) dell’assicurato nei confronti del terzo responsabile del sinistro, quindi nel lato attivo del rapporto obbligatorio, fino a concorrenza dell’ammontare dell’indennizzo. Il realizzarsi del fenomeno successorio (vale a dire la modificazione soggettiva attiva) comporta l’opponibilità al surrogante delle eccezioni invocabili nei confronti del surrogato alla data del subingresso, con la conseguenza che il terzo può solo contestare all’assicuratore la sussistenza dei presupposti e delle condizioni della surrogazione.

La surrogazione dell’assicuratore è una delle ipotesi di “surrogazione legale” previste dal Codice Civile all’art. 1203. Fuori dei casi di surrogazione ex lege, può aversi surrogazione anche per volontà delle parti (per volontà del creditore, quando questi, ricevendo il pagamento da un terzo, dichiara espressamente di volerlo far subentrare nei propri diritti nei confronti del debitore, c.d. “surroga per quietanza”; per volontà del debitore, quando questi, prendendo a mutuo una somma per pagare il creditore, può surrogare il mutuante nella posizione del creditore pagato, c.d. “surroga per imprestito”).

L’Impresa assicuratrice di Autostrade Spa aveva impugnato la decisione d’appello per violazione degli artt. 1203, 1205 e 1916 cod. civ. In particolare essa sosteneva che il fenomeno successorio realizzato dalla surrogazione dell’assicuratore includesse anche la legitimatio ad causam accordata alla vittima di un sinistro stradale dall’art. 18 L. 990/1969 (oggi art. 144 Cod. Ass.) poiché il diritto nel quale l’assicuratore si era surrogato era assistito da quel tipo di azione speciale.

La conclusione doveva dunque essere che la surrogante avesse pieno titolo ad agire in giudizio non solo nei confronti dei danneggianti, ma anche nei confronti delle rispettive imprese assicuratrici per la RC.

I motivi della decisione.

La Cassazione parte col ricordare che la surrogazione dell’assicuratore realizza una successione a titolo particolare nel diritto vantato dall’assicurato nei confronti del terzo responsabile dell’evento dannoso oggetto della copertura assicurativa.

Secondo i giudici di legittimità, l’istituto in questione risponde ad un triplice scopo: evitare l’arricchimento dell’assicurato, che potrebbe derivare dalla possibilità di cumulo tra indennizzo e risarcimento; evitare l’arricchimento del responsabile, che – in assenza di surrogazione – beneficerebbe indirettamente della copertura assicurativa contro i danni stipulata dal danneggiato; consentire all’assicuratore di abbassare il costo generale dei sinistri e di conseguenza i premi nelle categorie omogenee.

L’assicuratore surrogante si sostituisce all’assicurato-danneggiato nei diritti che questi vanti nei confronti del terzo responsabile. Trattasi di una sostituzione integrale ed omnicomprensiva. Il surrogante “acquista” il credito, le garanzie del credito, gli interessi prodotti dal credito (anche se maturati prima della surrogazione) e si espone alle medesime eccezioni che il terzo responsabile avrebbe potuto opporre al danneggiato. Nel trasferimento ricadono anche le azioni e gli altri istituti processuali che la legge prevede a tutela del diritto vantato dal danneggiato nei confronti del responsabile. Quest’ultimo principio è stato ripetutamente affermato dai Giudici di Legittimità, anche con riferimento ad altre fattispecie [2].

Fondamentale appare chiarire cosa debba intendersi per “terzi responsabili”.

Come già enunciato da Cass. I Civ., 22.12.1976, n. 4710, per “terzi responsabili” ai sensi dell’art. 1916 cod. civ., come tali legittimati passivamente rispetto all’azione di surrogazione dell’assicuratore, non si deve intendere tutti coloro che a qualsiasi titolo siano debitori del danneggiato, bensì soltanto coloro che per contratto, per fatto illecito, “o per altra legittima causa di obbligazione” sono tenuti a rispondere dell’evento concretante il rischio assicurato.

Tra le altre cause legittime di obbligazione, dobbiamo certamente annoverare le disposizioni di legge: quando è una norma ad attribuire alla vittima dell’illecito un diritto di credito direttamente nei confronti dell’assicuratore del responsabile, come nel caso di danni derivanti dalla circolazione di autoveicoli o natanti, dall’esercizio della caccia, o dall’esercizio di attività nucleare, l’assicuratore del responsabile non è più soggetto estraneo al rapporto obbligatorio. Egli diventa uno dei soggetti tenuti, per legge, al risarcimento del danno nei confronti del danneggiato: diventa un debitore del danneggiato. Pertanto, se il credito di quest’ultimo si trasferisce per effetto di surrogazione, l’assicuratore del responsabile diventa debitore dell’assicuratore del danneggiato.

Tutte queste considerazioni sono conclusivamente racchiuse nel seguente dictum: “l’assicuratore contro i danni che in esecuzione del contratto abbia indennizzato il proprio assicurato vittima d’un sinistro stradale, ha diritto di surrogarsi ex art. 1916 cod. civ. non solo nei confronti del responsabile, ma anche nei confronti dell’assicuratore della RCA di quello”.

[1] A voler essere più precisi, nella precedente formulazione, applicabile al caso di specie (essendosi verificato il fatto nel lontano 1983), le ipotesi di esclusione della surrogazione erano diversamente formulate: “salvo il caso di dolo, la surrogazione non ha luogo se il danno è causato dai figli, dagli affiliati, dagli ascendenti, da altri parenti o da affini dell’assicurato stabilmente con lui conviventi o da domestici”. Come è agevole constatare, la diversa formulazione non incide sulla presente trattazione.

[2] Secondo Cass. 51/2012 il credito risarcitorio è suscettibile di cessione, ai sensi dell’art. 1260 e segg. cod. civ., ed il cessionario può, in base a tale titolo, domandarne anche giudizialmente il pagamento al debitore ceduto, pur se assicuratore per la RCA, non sussistendo alcun divieto normativo in ordine alla cedibilità del credito risarcitorio. Prima ancora, sempre in tema di cessione, Cass. 11095/2009 aveva affermato che il danneggiato da un sinistro stradale può cedere il proprio credito risarcitorio a un terzo, non trattandosi di un diritto strettamente personale e non esistendo al riguardo diretti o indiretti divieti normativi. Da tanto deriverebbe la legitimatio ad causam del terzo (in sostituzione del cedente) per l’accertamento della responsabilità dell’altra parte e per la condanna di questa, e del suo assicuratore per la RCA, al risarcimento dei danni.

Per Cass. 13342/2004, l’assicuratore convenuto in giudizio dall’assicurato per il pagamento dell’indennità assicurativa, in virtù del principio di economia processuale, può agire nella medesima sede a tutela del proprio diritto di surrogazione, anche in difetto del previo pagamento di detta indennità, chiamando in causa il terzo responsabile del danno allo scopo di ottenere, nei confronti di questo, una sentenza condizionale di condanna alla rivalsa di quanto sarà condannato a pagare all’assicurato a titolo di indennità, potendo egli offrire la prova dell’avvenuto pagamento della medesima in un momento successivo alla pronunzia della sentenza di condanna in favore dell’assicurato e di quella condizionale a suo favore. Cfr. a riguardo anche Cass. 3140/1979, Cass. 4269/1976, App. Genova 16.2.1973.

Per Cass. 16383/2006, per effetto del negozio di cessione del credito, il diritto di credito trasmigra al cessionario con tutte le azioni dirette ad ottenerne la realizzazione. Già in precedenza, Cass. 2737/1961 ricordava che “la cessione di un diritto di credito comporta anche la cessione delle azioni di cognizione e di esecuzione, a questo accessorie, tra le quali sono da annoverare quelle attinenti alla concreta attuazione delle garanzie poste a tutela del credito medesimo”.